Un ritratto di Matilde Serao (1856-1927). Tra le massime scrittrici di fine Ottocento e pioniera del giornalismo italiano, fondò e diresse (prima donna a farlo) un quotidiano, tuttora protagonista della sfera editoriale italiana.
Quando mori, il 25 luglio del 1927, a Napoli, Matilde Serao lasciò dietro di sé una mole imponente di scritti. Una quarantina di volumi, dai primi bozzetti e racconti della giovinezza ai libri della maturità a quelli della decadenza. Opere come “La virtù di Checchina” o “Il paese di Cuccagna” o “Il ventre di Napoli”; libri segnati e datati dal gusto del tempo come “Fantasia”; romanzi deliziosamente sentimentali come “Addio, amore”, e inoltre, una selva di articoli: mondanità, politica, moralità.
Ma la sua personalità oltrepassa decisamente la quantità e la qualità del suo lavoro, ed è senz'altro più significativa nella storia della grande mutazione femminile italiana tra Otto e Novecento e nella Storia d'Italia in genere.
Che Matilde fosse una donna eccezionale - nel senso letterale di un'eccezione alle regole: la regola dell'ambiente italiano e quella del suo genere sessuale - se ne accorse perfino una signora snob come la scrittrice americana, ma europea per scelta e per gusto, Edith Wharton, la pupilla di Henry James.
Quando negli ultimi anni della Vecchia Europa, alla vigilia della Grande Guerra, la incontrò nell'elegante e selettivo salotto parigino di Madame Fitz-James, la Wharton non esitò a definirla nel suo diario “una donna tozza e grossa, rossa in faccia e sul collo”, riconoscendo, però, che quando prendeva la parola era capace di raggiungere punte che l'americana cosmopolita e chic non aveva mai rilevato nei discorsi delle altre donne. Perché in Matilde “cultura e esperienza erano fuse nello splendore di un forte intelletto”.
Quanto a lei, Matilde, molti anni prima parlava di sé come non si sarebbe mai permessa di farlo nessuna delle eleganti protagoniste newyorkesi della sofisticata scrittrice. “Io sto bene” scrive a un amico poco dopo il suo arrivo a Roma “come salute fisica, come salute morale sono in un periodo di produzione febbrile da far paura: scrivo dappertutto e di tutto con audacia unica, conquisto il mio posto a forza di urti, di gomitate, col fitto e ardente desiderio di arrivare, senza avere nessuno che mi aiuti o quasi nessuno. Ma tu sai che io non do ascolto alle debolezze del mio sesso e tiro avanti per la vita come se fossi un giovanotto”.
Patrimonio familiare nessuno, cultura poca: Matilde, nata a Patrasso, in Grecia, il 7 marzo del 1856, era figlia di una donna greca graziosa e malaticcia, Paolina, e di un esule napoletano, Francesco, un antiborbonico che era scappato in Grecia nel ‘48 per sottrarsi alla repressione dei patrioti. Tornato a Napoli, Francesco tirava a malapena avanti e a malapena sosteneva la famiglia facendo il pubblicista in giornali e giornaletti di varia tendenza. Con lui, fin da bambina, Matilde aveva cominciato a frequentare le redazioni: refrattaria allo studio, fantasiosa e indisciplinata, fu quel mondo della bohème giornalistica napoletana, più che la Scuola Normale frequentata per tre anni, la vera formazione della ragazzina che voleva andare avanti per la vita come se fosse un giovanotto.
Un giorno, all'inizio del 1882, si era presentata negli uffici del Corriere di Napoli, dove era approdata dopo tre anni di impiego ai Telegrafi dello Stato, e aveva annunciato con il suo rumoroso buon umore ai colleghi più anziani l'intenzione di trasferirsi a Roma. “Perché?” le avevano chiesto leggermente sbigottiti dall'audacia di quella ragazza che sapevano povera, sola, senza nessuno che le coprisse le spalle. Per scrivere, aveva risposto. “Nient'altro che scrivere. Questo è il mio mestiere. Questo è il mio destino. Scrivere fino alla morte”.
Così fu, ma non solo. Nella capitale Matilde ci andò, come il protagonista di un suo romanzo, soprattutto per conquistarla. E conquistare a se stessa una posizione alla quale nessun'altra donna del suo tempo avrebbe neppure lontanamente pensato. Cominciò a collaborare a testate di punta come Il Capitan Fracassa, il Fanfulla della Domenica, la Cronaca Bizantina, ma anche a frequentare il bel mondo e a fare amicizie utili.
Di Roma non la interessavano i monumenti e le opere d'arte, ma la politica, la circolazione di idee e di denaro, la promessa di modernità. Anche se, rispetto alle altre emancipate dell'epoca, non solo le italiane, Matilde fu al tempo stesso più audace e più conservatrice. Non amava le suffragette, ma voleva essere indipendente; apprezzava gli uomini e i piaceri - e i tormenti - dell'amore, ma aveva il gusto degli affari e del denaro; non saltava un giorno di lavoro ma accettava con serenità le sue numerose maternità, come se in lei convivessero un uomo moderno e una donna all'antica. Del suo matrimonio con Edoardo Scarfoglio (già incinta, nel 1884) fanno parte, in egual misura, la passione amorosa, i figli (con lui ne ebbe cinque: quattro maschi dopo una primogenita nata morta), la gelosia e i tradimenti e insieme le imprese professionali ed economiche come la fondazione del Mattino di Napoli, di cui il marito fu direttore e lei condirettrice.
Quando, dopo quasi vent'anni di un sodalizio fatto di fasti e debiti, di successi e disastri, di desiderio e litigi, lei ed Edoardo si separarono all'inizio del Novecento, Matilde ebbe, a quarantotto anni, un'altra figlia con un altro uomo, e contemporaneamente fondò e diresse da sola un altro giornale, Il Giorno.
Lavorando fino all'ultimo e sostenendo, al riparo della sua inarrestabile risata, del corpo tozzo e grosso che tanto aveva impressionato la signora americana e soprattutto della sua intelligenza anticonformista, la sfida che la sua vita diversa e tutta costruita con le proprie mani le aveva precocemente lanciato.