La questione meridionale

 

 

 

"Un passato che non passa" 

 

 

 

 

 

Come ha scritto lo storico e saggista Piero Bevilacqua [1]: “Da preoccupazione conservatrice per la fragilità dell’unità nazionale appena conseguita a punto cruciale di ogni progetto politico liberale o rivoluzionario di modernizzazione, la riflessione su questo tema ha impegnato i maggiori intellettuali italiani del Novecento. Ora, scomparse le masse di contadini poveri che avevano costituito il principale dramma del Mezzogiorno, la questione meridionale si concentra sulla debolezza del sistema produttivo, sull’inadeguatezza dei servizi e sulla criminalità organizzata: tutti aggravamenti specifici di problemi nazionali”. 

In effetti, com’è noto, la “questione meridionale” ha accompagnato la storia dell’Italia moderna, ma non sempre ha assunto connotati permanenti. Dai problemi della riforma agraria - avviata nel 1950 - e della Cassa per il Mezzogiorno - istituita nello stesso anno - dall’arretratezza del mondo contadino, dal problema del latifondo, dalla cultura liberale e superstiziosa del Meridione, si è passati a questioni radicalmente diverse: disoccupazione post-industriale, degrado urbano, economia illegale sommersa, mafie che gestiscono affari di dimensione mondiale. Il Sud dunque non è più il Sud contadino descritto da Gaetano Salvemini, da Antonio Gramsci, da Ernesto De Martino, da Francesco Saverio Nitti. Come il resto del mondo industrializzato, il Sud d’Italia ha raggiunto la fase post-industriale, ma con la differenza di non vivere mai una fase industriale “matura”.

Più di un secolo fa le grandi inchieste sociali di Sidney Sonnino, di Pasquale Villari, di Giustino Fortunato, condotte con indagini dirette e personali sul campo, i cosiddetti viaggi di “esplorazione sociale” nell’Italia meridionale - percorsi spesso a dorso di mulo e a piedi -, hanno messo in evidenza la necessità di sostenere gli investimenti produttivi nel Sud. Anche durante il regime fascista il Mezzogiorno è stato al centro di un dibattito teso e intenso grazie al contributo di meridionali e meridionalisti, da Antonio De Viti De Marco a Don Luigi Sturzo, da Guido Dorso a Tommaso Fiore. Quando però sono finalmente arrivati gli interventi economici dello Stato per il Mezzogiorno essi hanno raggiunto un unico obiettivo: quello di accrescere il “clientelismo”, senza creare le condizioni di un’economia vitale e libera. A questo proposito lo storico Alberto De Bernardi [2] ha precisato che: “Le relazioni clientelari costituiscono la norma dei rapporti sociali nelle società rurali arretrate”.

La “questione meridionale” ha quindi radici profonde. Il Sud è come prigioniero di un “passato che nella sua sostanza non passa”. A che cosa si deve tutto questo? Dobbiamo davvero pensare che esistono due Italie, una diversa dall’altra, una estranea all’altra: un’Italia lanciata verso il progresso e un’altra prigioniera dell’arretratezza? Esiste veramente una “questione meridionale” che sia soltanto meridionale? E infine: quella del Sud è arretratezza o è diversità?

Il problema è che il Sud è rimasto principalmente un’area di consumo e di parziale esportazione di “capitale umano” qualificato, caratterizzato da una persistente ed ampia disoccupazione giovanile e femminile. Nel corso del tempo la “questione meridionale” è infatti sempre più diventata la “questione del lavoro”. Il dibattito sugli squilibri tra Nord e Sud del Paese pertanto si è tristemente ridotto alla riproposizione di un “teorema meridionale”, in base al quale lo stanziamento di risorse per il Mezzogiorno è considerato pressoché inutile, visto che in passato tale pratica si è rivelata inefficace a causa degli sprechi e della struttura “clientelare” della società meridionale. Dall’inizio del XXI secolo inoltre, l’esaurirsi della crescita dell’economia italiana in tutto il Paese e le evidenti difficoltà del modello di capitalismo italiano nell’era dell’euro, delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e dell’aggressiva concorrenza manifatturiera asiatica, hanno reso il quadro estremamente complesso. E, dulcis in fundo, è deflagrato un ordigno chiamato “crisi internazionale” - la dura recessione innescatasi nel 2008, ancora drammaticamente in corso - che ha reso via via sempre più stringenti i vincoli del Patto di stabilità europeo.

Oggi perciò la crisi dell’Italia contemporanea - un prisma dalle mille sfaccettature - si svela in tutta la sua complessità, non solo economica ma anche etica e culturale. L’intero Paese incontra difficoltà sempre maggiori ad immaginare una visione del proprio futuro, ed aumenta l’attitudine a considerare la soluzione di ogni problema esclusivamente su base individuale o territoriale. Altresì, l’unica via percorribile per rilanciare l’economia non solo del Sud ma di tutto il Paese, è quella di rendere prioritarie nell’agenda italiana l’elaborazione e l’attuazione di sane politiche di sviluppo, affiancate da una radicale e quanto mai condivisa riforma del mercato del lavoro. Un passaggio non più rinviabile.      

 


[1] P. Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale dall’Ottocento a oggi, Donzelli editore, Roma, 1993. 

[2] A. De Bernardi, Clientelismo, P. Ginsborg, a cura di, Lo Stato dell’Italia, Il Saggiatore, Bruno Mondadori, Milano,1994.