L’Italia dalla "prima" alla “seconda" Repubblica
"Una difficile transizione"
La fine degli anni Settanta ha mostrato il persistere di una situazione politica e sociale molto difficile nel nostro Paese. In quegli anni infatti l’inflazione aveva superato il 20 % e il terrorismo continuava i suoi attacchi. Il 2 agosto 1980 la strage della stazione ferroviaria di Bologna segnò il culmine dell’azione terroristica. Tuttavia il sistema democratico aveva retto e si dimostrava in grado di resistere ad ulteriori attacchi. Era ormai chiaro che gli opposti disegni delle “trame nere” e del “terrorismo rosso” avevano politicamente fallito. Le forze eversive erano ancora in grado di colpire, ma senza alcuna possibilità di successo nel loro disegno di distruzione delle istituzioni democratiche; il popolo italiano non aveva confuso i pur gravi difetti di funzionamento della democrazia italiana con la “democrazia” in sé in quanto bene comune.
La scomparsa dell’onorevole Aldo Moro nel 1978 e la sconfitta comunista alle elezioni del 1979 posero dunque le condizioni per una ripresa dell’accordo politico, anche se caratterizzato da elementi notevolmente conflittuali tra DC e PSI sulla base dell’esclusione del PCI.
Dopo due governi Cossiga, un governo presieduto da Forlani venne nuovamente formato con la partecipazione diretta del PSI. Questo governo fu travolto dal dilagare degli scandali, il più grave dei quali fu quello legato ad una gigantesca evasione fiscale, favorita dai vertici della Guardia di Finanza in cambio di enormi tangenti a beneficio di società petrolifere. Ma la punta dell’iceberg venne rappresentata dallo scandalo della P2, una loggia massonica “coperta” a cui risultarono aderenti un gran numero di personalità della politica, degli apparati dello Stato e del giornalismo, guidati da Licio Gelli e avente scopi eversivi e antidemocratici. Scandali e corruzione indussero il PCI a sollevare la “questione morale”.
Nel giugno del 1981 - fatto del tutto nuovo nella vita politica della repubblica e risultato significativo dell’usura profonda dell’immagine della DC - diventò presidente del Consiglio un laico, lo storico e leader del PRI Giovanni Spadolini, che sarebbe rimasto al potere, guidando due governi, fino al novembre del 1982.
Spadolini sviluppò un’azione di contenimento dell’inflazione e in politica estera diede al Paese una linea di attiva partecipazione alla politica occidentale con l’installazione a Comiso, in Sicilia, dei missili Cruise - resasi necessaria per controbilanciare l’installazione di nuovi missili sovietici - e l’invio di un contingente italiano in Libano. Il governo Spadolini prese inoltre l’importante decisione di inviare a Palermo - con le funzioni di superprefetto e lo scopo di imprimere nuova energia nella lotta contro la crescente potenza mafiosa - il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che si era distinto per la sua forza e devozione allo Stato nella lotta contro il terrorismo, a cui aveva inferto colpi decisivi. Ma il 3 settembre 1982 il generale, cui erano stati negati i più ampi poteri da lui richiesti, venne assassinato nel pieno centro di Palermo.
Il delitto Dalla Chiesa era stato di poco preceduto da un torbido episodio quale il suicidio/assassinio a Londra di Roberto Calvi - 18 giugno ’82 -, un banchiere capo del Banco Ambrosiano protagonista di affari di corruzione che comprendevano ambienti loschi, partiti, finanza vaticana. Intanto il 13 maggio del 1981 un attentato contro Giovanni Paolo II, che rimase gravemente ferito, aveva fatto sospettare la mano dei servizi segreti dell’Est europeo e sovietici volti a colpire un papa polacco troppo influente politicamente nel suo paese di origine.
Il secondo governo Spadolini ebbe fine in conseguenza delle tensioni generate all’interno della maggioranza da socialisti e democristiani. Toccò a un governo Fanfani gestire le elezioni anticipate del giugno 1983, che anzitutto risultarono un successo per il PRI, il quale beneficiò della buona prova data da Spadolini, mentre la DC subiva una netta flessione. La crisi elettorale democristiana creò le condizioni affinché il governo venisse formato dal leader del PSI Bettino Craxi, primo presidente socialista nella storia italiana.
Il leader del PSI, salito al potere in una condizione economica ancora sfavorevole, poté godere degli effetti di una forte ripresa dell’economia nel quadro di una positiva congiuntura internazionale, così da conseguire notevoli successi nella lotta contro l’inflazione e nello sforzo per contenere, anche a prezzo di aspri scontri con i sindacati, l’alto costo del lavoro.
Un’importante iniziativa del governo Craxi fu la firma, il 18 febbraio 1984, di un nuovo Concordato con la Chiesa, che sostituiva quello stabilito fra il Vaticano e lo Stato fascista nel 1929. Esso segnava la fine dello Stato confessionale, in quanto la religione cattolica non veniva più riconosciuta come religione di Stato.
La crisi del governo Craxi ebbe luogo nell’aprile del 1987, in seguito a una polemica tra PSI e DC circa i reciproci doveri di rispettare il “patto della staffetta”, secondo cui ad un certo punto il primo partito avrebbe dovuto cedere il bastone di comando all’altro.
Il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, succeduto nel 1985 a Sandro Pertini, indisse nel giugno del 1987 le elezioni, ancora una volta anticipate. Successivamente l’azione della magistratura contro la corruzione politica-economica andava producendo effetti di grande risonanza, con la richiesta di autorizzazioni a procedere da parte dei giudici contro decine e decine di parlamentari della DC e del PSI e in generale dei partiti che avevano esercitato la funzione di governo. Era ormai in corso quella che sempre più veniva significativamente definita la “rivoluzione dei giudici”, avente come protagonista il giudice milanese Antonio Di Pietro.
L’azione della magistratura, diretta in primo luogo contro i partiti, ma non solo, andò a mano a mano investendo nel corso del 1992-93 anche il mondo dell’industria, mettendo in luce un organico e profondissimo intreccio tra affari e politica, tale da configurare un vero e proprio sistema di finanziamento illegale dei partiti. Vennero coinvolti direttamente Craxi e molti altri leader politici di primissimo piano. Accanto al coinvolgimento di Craxi si ebbe quello di Andreotti, accusato di essere stato al centro dell’intreccio mafia-politica. La perdita di legittimità di tutto un ceto politico di governo trovava nelle loro due persone la propria espressione simbolica.
In effetti, ciò che emergeva non era soltanto un problema giudiziario. Si trattava più in generale della fine degli schieramenti politici, del sistema di alleanze, dei modi di vita, dei meccanismi di acquisizione, di mantenimento e di allargamento del consenso propri di un’epoca della storia delle formazioni politiche che avevano dominato la vita della repubblica negli anni del bipolarismo internazionale, influenzando l’Italia più profondamente di qualsiasi altro paese dell’Europa occidentale.
Mentre si trovava ad affrontare la profonda crisi dei partiti, delle istituzioni e dell’economia, il Paese fu investito in maniera drammatica dalla lotta fra lo Stato e le organizzazioni criminali, in primo luogo la mafia e la camorra, la cui potenza economica, la capacità di esercizio della violenza e influenza, anche politica, non aveva fatto che crescere grazie alle collusioni con importanti settori dei partiti governativi.
Dopo che nel settembre del 1982, come già ricordato, la mafia aveva fatto assassinare a Palermo il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, si era avuto nel Sud un seguito ininterrotto di azioni criminose. Rispettivamente il 23 maggio e il 19 luglio 1992, in risposta all’intensificazione dell’azione repressiva della magistratura e delle forze di polizia, vennero assassinati i due magistrati che più di tutti si trovavano in prima linea nella lotta antimafia: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Proprio all’inizio di maggio papa Giovanni Paolo II, in visita in Sicilia, aveva rivolto contro la mafia parole di veemente condanna, di una forza senza precedenti.
Lo scoppio di “Tangentopoli”, la crisi del sistema politico e dei partiti tradizionali su cui esso si era sorretto, l’impulso dato in generale dalle riforme istituzionali e il ridisegnarsi dei soggetti politici, costituivano quindi nel loro insieme i segni inequivocabili della fine della Repubblica così come si era costituita a partire dal 1947-48. Il che giustificava che nel 1992-93 sempre più insistentemente si parlasse di fine della “prima Repubblica” e di trapasso verso una “seconda Repubblica” dai tratti indefiniti.