Il crack del 1929
New York, 29 ottobre 1929: crolla la borsa di Wall Street e da quel momento comincia la grande crisi economica. Crollano i titoli azionari, falliscono banche e imprese, la disoccupazione sale alle stelle. L’incantesimo dello sviluppo americano si rompe. È il panico: gli Stati Uniti e il mondo intero sono in ginocchio.
La crisi del 1929 in America arriva improvvisa dopo dieci anni di ricchezza e di ottimismo.
Dal 1920 il valore delle azioni non ha fatto che salire e sembra che non esistano confini al mondo di carta dei titoli azionari e ai guadagni crescenti. L’impressione di vivere in una situazione di ricchezza permanente è molto diffusa. Anche se solo una piccola parte dei cittadini americani ha investito in borsa, il mercato è entrato a far parte della cultura diffusa del Paese. Tutti gli occhi sono puntati su Wall Street, la sede della Borsa di New York. Guardare scendere e salire le azioni è diventato uno sport popolare. C’è chi, come Jesse Livermore ha creato una fortuna dal nulla, un impero di carta, solo giocando in borsa, ma c’è anche chi, come il fondatore della General Motors William Durant, è partito da una ricchezza creata su base industriale per poi passare alla speculazione finanziaria.
Nuovi ricchi si affermano. Il loro è un modo totalmente nuovo di fare fortuna, non legato come in passato alle costruzione di acciaierie o all’estrazione del petrolio: sono uomini che accumulano grosse somme di denaro solo comprando e vendendo azioni.
Banchieri e speculatori conducono vite da re, ma anche per i piccoli risparmiatori la tentazione
della ricchezza appare irresistibile. L’economia americana sta cambiando, la rivoluzione dei consumi è alle porte e iniziano a diffondersi su vasta scala pratiche nuove come la
vendita a rate.
Nel frattempo, cordate di investitori, aiutati da informatori all’interno dell’azienda - i cosiddetti insiders - si mettono d’accordo per comprare un titolo, gonfiarne il prezzo e
poi rivenderlo, altissimo, ad investitori ignari. Si crea una vera bolla speculativa, in una situazione completamente priva di regole. Ad arricchirsi sono soprattutto quelli
che non hanno scrupoli e speculano sulla borsa falsando il mercato. Gli osservatori che mettono in guardia dai rischi di un simile boom vengono tacciati di antipatriottismo, e di voler
sminuire l’immagine dell’America.
Lunedì 25 marzo 1929: gli investitori cominciano a vendere, le blue chips crollano. Il giorno dopo un’altra ondata si abbatte sul mercato. A farne le spese sono soprattutto
coloro che hanno comprato a credito. Hanno dovuto versare un acconto del 10%, ma dopo il crollo dei titoli i loro soldi si sono volatilizzati. Moltissimi piccoli risparmiatori sono
costretti a vendere le azioni e quindi i titoli, svalutandosi, innescano una reazione a catena al ribasso. L’illusione dei soldi facili sembra svanire. Chi non vende si trova, proprio
come un giocatore d’azzardo, a dover chiedere altri soldi in prestito. È a quel punto che la Federal Reserve decide di “raffreddare” il mercato alzando il tasso di interesse.
Avere del denaro in prestito dallo Stato costerà molto di più, una mossa che non piace alle banche che vogliono tenere il mercato alto per continuare la loro speculazione.
Charles Mitchell, presidente della National City Bank, annuncia che la sua banca fornirà nelle successive ventiquattro ore 25 milioni di dollari di credito. Nell’arco di quelle ventiquattro
ore i tassi di interesse scendono dal 20 all’ 8%. Un escamotage che, almeno per qualche tempo, serve a far rientrare il panico. Ma l’economia americana segna in primavera una battuta
d’arresto; la produzione dell’acciaio rallenta, il settore delle costruzioni è fermo, il mercato delle automobili crolla. È sempre più difficile trovare nuovi clienti, e a causa
della facilità con cui si è fatto credito molte persone sono indebitate fino al collo. Ampie fasce di popolazione diventano sempre più povere. Ora che l’economia dà segnali di
crisi ci si aspetta che anche la borsa freni la sua corsa al rialzo, ma non è così.
Il mercato continua a salire e i prezzi delle azioni non hanno più nulla a che vedere con i profitti delle aziende. La bolla speculativa, disancorata dall’economia, vive ormai di vita propria.
La crisi recente della borsa sembra essere stata presto dimenticata e Wall Street vive
un nuovo momento di euforia. Il picco massimo del mercato azionario, dopo un’estate di crescita, viene toccato ai primi di settembre del 1929. Roger Babson, il commentatore
americano che per primo ha dato l’allarme, torna a ripetere che la crisi è molto più vicina di quanto la gente immagini e che le conseguenze saranno disastrose. Eppure i grandi finanzieri
sono ottimisti come non mai. Soltanto cinque giorni prima del crack Thomas Lamont, a capo della Morgan Bank, scrive al presidente Hoover per rassicurarlo:
“Il futuro è brillante, i titoli americani sono i più richiesti nel mondo”.
Arriva il 23 ottobre: le contrattazioni sono deboli e molti iniziano a pensare che sia prudente tirarsi fuori dal mercato. Il giorno successivo, il
primo giovedì nero della Storia, il mercato comincia a precipitare in caduta libera. Scatta il panico. Una folla minacciosa e rumorosa si raccoglie fuori dalla Borsa. Ma anche in
quel giovedì nero sembra che ci sia un barlume di speranza. Gli occhi sono tutti puntati su un palazzetto poco distante, la House of Morgan, e sul capo di quella banca,
Thomas Lamont. I banchieri si riuniscono e decidono un’altra volta di immettere una gran quantità di denaro sul mercato per sostenere la borsa.
Alle 13.30, con il panico alle stelle, il vice presidente della Borsa di New York, Richard Whitney, attraversa la sala della Borsa e ordina diecimila azioni della US Steel ad un prezzo molto più alto dell’ultima offerta e poi, strillando le sue offerte, compra pacchetti di azioni di tutti i titoli principali. Il segnale deve servire a calmare il panico e per quel giorno il rimedio funziona.
Molti pensano che se i banchieri investono il loro denaro vuol dire che la crisi è stata scongiurata. Ma il lunedì successivo, dopo la pausa di riflessione del week end, le cose vanno male durante l’intera seduta. Il giorno dopo, martedì 29 ottobre, è il giorno del crack.
Impossibile arrestare gli eventi, tutti vogliono vendere, il valore delle azioni crolla verticalmente. L’illusione che aveva contagiato l’intero popolo americano svanisce in pochi istanti.
Le previsioni ottimistiche di leaders politici ed economisti nel periodo immediatamente successivo al crollo borsistico newyorkese si rivelano illusorie. La grande depressione avanza senza sosta e la popolazione vede bruciare i propri risparmi. Nel 1933, quattro anni dopo il collasso, la Borsa di New York vale meno di un quinto del valore del 1929. Ma il crollo della Borsa non è che la punta dell’iceberg di una ben più profonda crisi della crescita economica americana.
Le elezioni presidenziali del 1932, vinte dal democratico Franklin D. Roosevelt, ruotano infatti attorno alle cause e ai rimedi della grande depressione. E sarà questo l’obiettivo del suo coraggioso programma di intervento attivo dello Stato nell’economia e nella società, denominato "New Deal".