"I TEMPI": ARTE
La Cappella Sistina: un tesoro artistico mondiale.
Il 15 agosto del 1483 - era un venerdì di 535 anni fa! - Papa Sisto IV inaugurava la cappella Palatina del Palazzo Apostolico restaurata, consacrandola all’Assunta. Ripercorriamone brevemente la genesi.
Inserita in una vasta opera di ristrutturazione del tessuto urbano di Roma, l’opera, iniziata nel 1475 su progetto di Baccio Pontelli e realizzata da Giovannino de’ Dolci, ha visto la partecipazione dei grandi maestri del Rinascimento italiano - come Botticelli, Perugino, Pinturicchio, Ghirlandaio, Signorelli - che dal 1481 al 1482 hanno affrescato le pareti della grande navata.
Il ciclo pittorico esalta agli occhi dei primi spettatori le dimensioni imponenti della navata rettangolare (lunga 40,93 metri e larga 13,41), le stesse del Tempio di Salomone, così come riportate nell’Antico Testamento. Un chiaro segno di continuità tra la storia del popolo di Israele e la comunità di Cristo.
Nel 1484 Sisto IV muore e a succedergli è il nipote Giulio II della Rovere che incarica Michelangelo Buonarroti di decorare la volta e le lunette. Terminati nell’ottobre del 1512, i nuovi affreschi vengono svelati ufficialmente il 1° novembre con una messa celebrata da Giulio II, che decide di consacrare la cappella allo zio.
Gli affreschi dell’altare con il celebre “Giudizio Universale” saranno portati a termine tra il 1525 e il 1541. Da questo momento in poi per il mondo sarà la “Cappella Sistina”, scrigno di uno dei tesori artistici più conosciuti in assoluto.
3/7/2018
La Casa Museo di Luigi Pirandello a Roma: l’ultima dimora del grande narratore.
Situata all’ultimo piano di un bel villino liberty in Via Antonio Bosio 13 b, a pochi passi da Villa Torlonia, nel quartiere Nomentano di Roma, la Casa Museo Luigi Pirandello è già passata alla storia come Villa Pirandello. Qui lo scrittore, drammaturgo e poeta ha trascorso gli ultimi anni della sua vita, e qui ha appreso la notizia del conseguimento del Premio Nobel per la Letteratura nel 1934. Precedentemente aveva abitato al piano rialzato insieme alla sua famiglia. Dal 1962 l’abitazione ospita la sede dell'Istituto di Studi pirandelliani e sul Teatro italiano contemporaneo, cui è affidata la custodia del patrimonio storico-artistico, la tutela e la valorizzazione della biblioteca e degli archivi, che sono consultabili. La casa è aperta al pubblico per visite guidate. L’ingresso è gratuito, e le emozioni garantite!
Per info: www.studiodiluigipirandello.it
Luigi Pirandello nasce il 28 giugno del 1867 a Girgenti, l’odierna Agrigento.
La famiglia, di tradizione garibaldina e antiborbonica, è proprietaria di alcune zolfare e appartiene alla nuova borghesia professionistica e industriale siciliana, destinata, dopo l’unità d’Italia, a divenire la nuova classe dirigente dell’Isola.
Il giovane Pirandello frequenta il liceo classico a Palermo. Si iscrive quindi alla facoltà di Lettere, proseguendo gli studi universitari prima a Roma, poi a Boon, in Germania, dove nel 1891 si laurea in filologia, discutendo una tesi sulla “parlata agrigentina”. Intanto esordisce come poeta con due raccolte: “Mal giocondo”(1889) e “Pasqua di Gea”(1891).
Rientrato in Italia si stabilisce a Roma, dove svolge l’attività di professore e giornalista, collaborando a giornali e riviste letterarie con recensioni e novelle.
Nell’ambiente letterario della capitale conosce Luigi Capuana, il teorico del Verismo, anch’egli siciliano, che lo spinge ad intensificare il suo lavoro di narratore. Pirandello comincia così la stesura del suo primo romanzo, “Marta Ajala”, che verrà pubblicato nel 1901 con il titolo “L’esclusa”.
Nel 1894 sposa Antonietta Portulano, figlia di un ricco socio in affari del padre. Nel 1897 comincia a insegnare come incaricato presso l’Istituto Superiore di Magistero di Roma. Poi la drammatica crisi familiare: nel 1903 le zolfare dei Pirandello-Portulano, fonte dell’agiatezza della famiglia, diventano impraticabili in seguito a un allagamento. La notizia dell’improvviso dissesto finanziario sconvolge la moglie che, già sofferente di nervi, si aggraverà progressivamente fino al punto di cadere preda della pazzia.
La vita familiare diventa un susseguirsi di violente scenate da parte di Antonietta, presa da mania di persecuzione e gelosa nei confronti del marito, fino a quando nel 1919 verrà ricoverata in una casa di cura dalla quale non uscirà più.
Per Pirandello il dramma della moglie, che inciderà non poco sulla sua amara visione della vita, è un trauma gravissimo. La necessità di guadagno immediato per far fronte alle necessità della famiglia costringe lo scrittore ad una intensa attività, spesso svolta di sera, dopo le lezioni al Magistero e mentre veglia la moglie.
Nel 1904 sulla “Nuova Antologia” esce “Il fu Mattia Pascal”; fra il 1904 e il 1906 appaiono altre raccolte di novelle.
Nel 1906 inizia la stesura di un nuovo romanzo “I vecchi e i giovani”, pubblicato integralmente nel 1913; nel 1908 teorizza la propria poetica nel saggio “L’umorismo”; nel 1910 esce il romanzo “Suo marito”; nel 1915 appare a puntate sulla “Nuova Antologia” un altro romanzo, “Si gira”.
Nel 1915-‘16 Pirandello inizia la propria prodigiosa carriera di teatro. Il primo successo è “Pensaci, Giacomino!”, rappresentato nel 1916, e seguito, nello stesso anno, da “Liolà”; nel 1917 sono in scena “Così è (se vi pare)”, “Il berretto a sonagli” e “Il piacere dell’onestà”; nel 1918 “Ma non è una cosa seria” e “Il gioco delle parti”; nel 1920 “La signora Morli una e due”.
Nel 1921 “Sei personaggi in cerca d’autore”, dopo un primo clamoroso insuccesso al teatro Valle di Roma, viene accolto trionfalmente al Manzoni di Milano, dando il via all’interesse internazionale per lo scrittore.
Il teatro pirandelliano diventa centro di discussioni e di dibattiti in Italia e all’estero. Gli spettacoli si susseguono: crescono i consensi alla sua opera, anche a quella narrativa.
Per curare personalmente l’allestimento, la regia e la recitazione delle proprie opere, Pirandello nel 1925 fonda la “Compagnia del teatro d’arte”, con due grandi interpreti, Marco Abba e Ruggero Ruggeri, che diffonderanno il suo teatro in tutto il mondo. Lo stesso scrittore viaggerà e soggiornerà per tanti anni in Europa e in America.
Frattanto nascono nuove e importanti opere: “Enrico IV”, “Vestire gli ignudi”, “L’uomo dal fiore in bocca” (1922-’23), “Ciascuno a suo modo”(1924), il romanzo “Uno, nessuno e centomila”(1926), “Questa sera si recita a soggetto”(1930).
Nel 1928 il dramma “La nuova colonia” inaugura l’ultima stagione pirandelliana, quella dei “miti”, che vede opere come “Lazzaro”(1929), e, incompiuto, “I Giganti della Montagna”.
Nel 1929 Pirandello entra a far parte dell’Accademia d’Italia; nel 1934 gli viene conferito il Premio Nobel per la letteratura.
Muore due anni più tardi a Roma, il 10 dicembre del 1936.
Nel 1937-‘38 esce postuma l’edizione definitiva delle “Novelle per un anno”.
26/6/2018
A Sora la 1a edizione della Mostra d’arte cinematografica “Vittorio De Sica”.
Venerdì 22 giugno 2018 presso la Sala Consiliare del Palazzo Municipale di Sora si è tenuta la presentazione della 1a edizione della Mostra d’arte cinematografica “Vittorio De Sica”, promossa dall’Assessorato alle Politiche Culturali del Comune di Sora, terra d’origine del grande maestro. Il progetto, finanziato dalla Regione Lazio, è realizzato in collaborazione con l’Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale e con la Presidenza del Consiglio provinciale di Frosinone. La mostra rientra nella programmazione di “ArtCity”, a cura del Polo Museale del Lazio. Il ricchissimo cartellone propone concerti, balletti, proiezioni cinematografiche e spettacoli teatrali.
Nell’ambito della mostra - che prenderà il via lunedì 25 giugno per concludersi il 14 settembre - verranno presentati e premiati lavori originali cinematografici (cortometraggi, documentari e mediometraggi). Il Concorso, promosso dall’Assessorato alle Politiche Culturali, vuole incentivare i giovani e nuovi talenti locali.
La partecipazione è gratuita.
Indimenticabile attore e regista, Vittorio De Sica è stato uno degli autori di maggior rilievo della stagione neorealista del cinema italiano. Ha vinto l’Oscar per il migliore film straniero con “Sciuscià” (1948), “Ladri di biciclette” (1950), “Ieri, oggi, domani” (1963) e “Il giardino dei Finzi Contini” (1972).
Nato a Sora il 7 luglio del 1901, Vittorio De Sica cresce in una modesta famiglia della Ciociaria, a metà strada tra le due grandi città della sua vita: Napoli e Roma. Si diploma in ragioneria e prima di entrare nel mondo del teatro, ancora giovanissimo, lavora presso la Banca d’Italia.
Debutta sul palcoscenico a sedici anni, alternando i lavori più disparati per mantenere la famiglia. Negli stessi anni debutta anche nel cinema con una piccola parte in “L’Affaire Clemenceau” (1917), di Alfredo De Antoni. Nel 1923 entra nella compagnia teatrale di Tatiana Pavlova, interpretando ruoli di tipo “macchiettistico” che riscuotono un gran successo tra il pubblico.
Nel 1932 ottiene il suo primo successo cinematografico interpretando Bruno nel film “Gli uomini... che mascalzoni!”, di Mario Camerini, che trionfa alla Mostra del Cinema di Venezia. Nel 1933 fonda una compagnia teatrale con Giuditta Rissone, che diventerà sua moglie nel 1938. Subito dopo nasce la prima figlia Emy. L’esordio alla regia è del 1940 con “Rose scarlatte”, di cui è anche protagonista.
Il film della svolta della sua carriera, che segna l’inizio della feconda collaborazione con lo sceneggiatore Cesare Zavattini, è “I bambini ci guardano” (1943), la storia di una famiglia divisa vista dall’occhio di un bambino “sballottato” tra genitori e parenti.
Nel dopoguerra dirige due opere che figurano tra i capolavori del neorealismo: “Sciuscià” (1946) e “Ladri di biciclette” (1948), che vincono entrambe l’Oscar speciale, successivamente sostituito dal premio per il “miglior film straniero”. Nel 1951 gira “Miracolo a Milano”, che si aggiudica la Palma d’oro a Cannes. L’anno dopo realizza un altro dei suoi capolavori, “Umberto D”, considerato dalla critica il punto più alto della sua filmografia.
Nel corso della sua brillante ed eclettica carriera non mancano “incursioni” nella commedia folkloristica dai toni più leggeri; nel 1954 dirige infatti “L’oro di Napoli”, interpretato da Totò, Eduardo De Filippo e Sophia Loren.
Nel 1960 sceglie proprio la Loren per interpretare il ruolo della protagonista ne “La Ciociara”, tratto dal romanzo omonimo di Alberto Moravia. Con questa interpretazione l’attrice vince il premio Oscar e la Palma d’oro del festival di Cannes come migliore attrice.
Vittorio De Sica conquista altri due Oscar con “Ieri, oggi, domani” (1963) e con “Il giardino dei Finzi Contini” (1970).
Separato dalla prima moglie, e ottenuta la cittadinanza francese, sposa nel 1968 l’attrice spagnola Maria Mercader, dalla quale aveva già avuto i figli Manuel (compositore) e Christian (attore e regista).
Il grande regista muore a Parigi, a seguito di un delicato intervento chirurgico, il 13 novembre del 1974.
Le sue spoglie sono state tumulate nel cimitero monumentale del Verano a Roma.
23/6/2018
Claude Monet
La vita e le opere di Claude Monet (1840-1926). Nella storia dell’arte è ricordato come il pittore della luce, padre di quella corrente pittorica che ruppe i canoni tradizionali e che da un suo celebre quadro, “Impressione. Levar del sole”, prese il nome di Impressionismo.
“Sono costretto a continue trasformazioni, perché tutto cresce e rinverdisce. A forza di trasformazioni, io seguo la natura senza poterla afferrare, e poi questo fiume che scende, risale, un giorno verde, poi giallo, oggi pomeriggio asciutto e domani sarà un torrente”.
Claude Monet
Nato il 14 novembre del 1840 a Parigi, la sua infanzia scorre nel porto di Le Havre dove il padre gestisce un negozio di forniture marittime.
Fin da bambino Claude Monet mostra un particolare talento artistico e a quindici anni comincia a realizzare, usando la tecnica della matita e del carboncino, alcune caricature di personaggi noti che vende nel negozio del padre e gli procurano già una discreta fama.
Continuerà a lavorare su quelle caricature arricchendone la tecnica con l’introduzione di effetti di luce e l’uso di colori a pastello.
Successivamente i disegni caricaturali lasceranno il posto a ritratti che si arricchiscono di un’indagine psicologica penetrante.
Negli anni trascorsi a Le Havre incontra il pittore Eugène Boudin, che segna notevolmente la formazione artistica di Monet incitandolo a cogliere la vitalità dinamica della natura da poter essere ritratta solamente sul posto, e consigliandogli dunque la pittura “en plein air” il cui tocco spontaneo non potrà essere mai riprodotto dentro un atelier. Gli insegna che deve sempre tenere bene in mente la prima impressione che sorge in lui nella visione del soggetto da dipingere e, solo successivamente, considerare gli altri dettagli, senza però mai cadere nell’errore di inserire altri oggetti. L’artista deve osservare con attenzione la natura ed afferrarne tutta la mutabilità degli istanti. Alla fine può scaraventare tutte le sensazioni sorte dal profondo del suo animo, derivate da tale osservazione minuziosa, sulla tela. Solo così il soggetto dipinto può trasmettere la vitalità delle emozioni racchiuse nell’animo dell’artista.
Lo stesso maestro di Monet si può considerare un anticipatore dell’impressionismo nel suo dipinto “Sulla spiaggia a Trouville” in cui si nota l’immediatezza visiva, la luminosità ed i giochi di colore che contraddistinguono quel movimento artistico.
Quando Boudin, colpito dalla vena espressiva del ragazzo, si rende conto che il giovane allievo ha superato di gran lunga il maestro, lo esorta a lasciare Le Havre e a trasferirsi a Parigi per poter così confrontarsi con altri giovani artisti alla ricerca di nuove forme tecniche.
Monet comprende già, l’anno prima di recarsi a Parigi, di aver iniziato a “vedere” e a “dipingere”: “In quel momento mi si aprirono gli occhi e cominciai a capire veramente la natura”.
Segue così il consiglio del suo maestro e nel 1859 si stabilisce a Parigi con un bagaglio artistico che caratterizzerà tutta la sua produzione, incentrata su una crescita incessante che prende vita nella prima impressione visiva, ne elabora gli impulsi attraverso un filtro spirituale, per poter poi rimandare sulla tela delle immagini nuove.
E nella capitale della cultura, dove risiede a casa di una zia, frequenta la “Brasserie des Martyrs” (La “Birreria dei Martiri”) dove si incontrano gli artisti più rilevanti dell’epoca. Rifiuta gli insegnamenti accademici; il suo temperamento scevro da schemi prestabiliti e volto a catturare l’attimo fuggente lo induce a rigettare ogni studio del chiaro-scuro, che a parer suo sottrae l’immediatezza dell’emozione visiva. Il padre si oppone però a tale scelta e lo costringe a frequentare i corsi tenuti presso l’Accademie Suisse e dal pittore Gleyre. Non trarrà alcun vantaggio da tali lezioni, determinato a seguire ciò che il suo istinto gli suggerisce, ma stringerà amicizia con Pissarro, Renoir e Sisley.
Girovaga anche tra i sobborghi parigini e incontra quegli artisti rifiutati dal Salon con cui instaurerà un intenso legame umano e artistico, che li condurrà in seguito a creare insieme in un reciproco arricchimento di stili pittorici e di idee.
Conosce anche i pittori Corot, Manet, Delacroix, Coubert e il poeta Baudelaire.
Nel 1860 è costretto a interrompere la sua attività artistica a causa della guerra in Algeria, in cui resta ammaliato dai colori del luogo. L’anno seguente viene esonerato dal servizio e rientra a Parigi.
Realizza in poco tempo il dipinto “Nello studio”, ritenuto l’emblema del periodo conclusivo della sua formazione.
Dopo questo quadro si apre quel percorso di ricerca espressiva che accompagnerà tutta la vita dell’artista.
Il chiaro-scuro andrà a scomparire del tutto insieme al disegno prospettico; il cammino verso la rivoluzione impressionista è già intrapreso.
La sua tavolozza comincerà a schiarirsi e l’attenzione dell’artista si focalizzerà sullo studio della luce e del contrasto tra colori complementari. Colori che, quando vengono accostati, si rafforzano a vicenda e riescono a creare le ombre, giungendo così a un risultato di enorme luminosità.
Senza mai abbandonare l’en plein air, Monet incita gli altri pittori a sperimentare il linguaggio pittorico impressionista per poter così ottenere paesaggi che da statici diventano dinamici attraverso il coinvolgimento interiore dell’artista ai cambiamenti incessanti della luce, del continuo fluire della vita quotidiana cadenzata da una moltitudine di momenti irripetibili.
Estremamente incisivi gli anni che vanno dal 1865 al 1866; l’artista realizza delle opere interessanti che vengono accolte positivamente dal pubblico e da quasi tutti i critici.
“Camille in abito verde” è una delle opere più rappresentative di quel biennio, ma ancora per quella vera e propria rivoluzione artistica di Monet, che con i suoi fremiti cromatici scuote gli accademici del tempo, si deve attendere qualche anno.
La donna ritratta diventerà sua moglie nel 1870, cinque anni dopo aver avuto il primo figlio.
Gli anni che mostreranno la svolta decisiva impressionista di Monet cominciano proprio dopo il matrimonio con Camille, e nei dipinti che il pittore realizzerà dal 1870 in poi si potrà cogliere quello stile inconfondibile di un pittore estremamente volitivo pronto a sfidare la giuria del Salon.
Oltre al già citato “Impressione. Sorgere del sole”, simbolo del nuovo movimento e che induce un giornalista a coniare il termine “Impressionismo” per denigrare un’arte che si scompone in piccoli e straordinari frammenti di luce, nel 1873 Monet realizza un altro dipinto rivoluzionario: “I papaveri“. Un’opera sublime che cattura la luce di una giornata estiva ad Argenteuil, dove si è trasferito con la famiglia in una casetta in cui si dedica a un’altra delle sue passioni: il giardinaggio. Il dipinto in questione viene edificato senza indugiare sui dettagli e con una tecnica molto singolare: inizialmente il pittore ha creato la base per i papaveri con una spruzzata di colore e successivamente ha ritoccato le forme dei fiori usando delle macchie di colore per mettere in rilievo quella moltitudine floreale, facendo sì che l’effetto finale, percepito emotivamente da quella visione, mostri la diversità di ogni papavero.
Soggetto ad aspre critiche e a notevoli ristrettezze economiche, grazie all’aiuto economico di Manet, il pittore prosegue il suo cammino artistico donandoci delle opere in cui, con il passare del tempo, l’utilizzo rivoluzionario dei colori complementari diventa sempre più evidente. Viaggia molto anche a causa dello scoppio della guerra franco-prussiana, e al suo rientro realizza altri capolavori, tuttavia ancora poco apprezzati.
Dopo la morte della moglie, avvenuta nel 1879, si stabilisce a Giverny, in Normandia, dove allestisce la sua prima mostra personale insieme a Renoir. I suoi dipinti cominciano ad essere ammirati e compresi da un pubblico sempre più folto.
Con le mostre a Londra, seguite da quelle a Bruxelles, a New York e a Stoccolma, Monet diventa finalmente famoso e le sue opere gli recano notorietà in tutto il mondo.
Dopo il 1890 comincerà a dedicarsi al suo sogno, già preannunciato, di produrre dei dipinti seriali tra cui bisogna ricordare la serie dei “Pioppi” (1891), quella della “Cattedrale di Rouen” (1892-1894) e la realizzazione della serie dedicata alle “Ninfee”, a cui si dedicherà fino alla morte.
Nell’opera “La Cattedrale di Rouen, primo sole” bisogna osservare con attenzione le parti illuminate e quelle in ombra.
La facciata della cattedrale, illuminata dalla luce dorata del mattino, viene dipinta di un giallo che apparentemente sembra contrastare con le ombre di color azzurro violaceo. In realtà quel colore si armonizza perfettamente con il giallo perché qualsiasi oggetto investito da una luce gialla rimanda delle ombre violette. Monet, attento osservatore dei fenomeni naturali, usa proprio quei colori complementari per creare le ombre che fino a quel momento erano state realizzate con l’utilizzo del grigio.
Gli ultimi anni della sua vita trascorrono dolorosamente; perde il primo figlio e si spegne la sua seconda moglie, Alice. I suoi problemi alla vista si acutizzano ogni giorno di più, ma non smette di dipingere le sue ninfee, nonostante sia ormai quasi cieco. Enormi dipinti di ninfee riempiono la sua casa, e chi si reca a fargli visita racconta di aver avuto un impatto visivo suggestivo e irreale, che trasmetteva un desiderio di infinito in quel pittore ormai malato di tumore ai polmoni e destinato a spegnersi il 5 dicembre del 1926, all’età di 86 anni.
In quegli stagni di ninfee di cui aveva riempito il suo giardino si riflette quel fascino esercitato dalla natura in questo grande pittore.
Se ci fermassimo più a lungo ad osservare la natura con occhi diversi, forse riusciremmo a coglierne quella mutabilità magica e sfuggente che Claude Monet ha cercato di fissare nelle sue opere.
19/6/2018
La Basilica di San Pietro
La storia della Basilica di San Pietro in Vaticano: il più importante tempio della cristianità, luogo simbolo della fede cattolica e scrigno di opere d'arte senza tempo, riconosciuto dall’UNESCO nel 1980 Patrimonio dell'Umanità. Ri-scopriamola insieme.
Mentre in seno alla cristianità cominciavano ad avvertirsi i primi segnali del protestantesimo, la Roma papale rispose avviando la costruzione di un nuovo grande tempio, completato in oltre un secolo. Destinato a diventare il cuore pulsante del cattolicesimo, i grandi maestri del Rinascimento e del Barocco ne fecero un prezioso scrigno di opere immortali.
Sul luogo di sepoltura dell'apostolo Pietro, primo pontefice della storia, sorgeva la basilica paleocristiana fatta erigere dall'imperatore Costantino nel 324, quale segno del clima di apertura al credo cristiano, inaugurato dall'Editto di Milano del 313. L'idea di sostituirla con un altro edificio di maggiori dimensioni fu avanzata inizialmente da papa Niccolò V, verso la metà del XV secolo.
La sua vasta opera di Renovatio dell'urbe, ossia di dare un'impronta monumentale alla città eterna, venne ripresa quasi mezzo secolo dopo da Giulio II, desideroso di tradurre in pratica il progetto della nuova basilica.
Il primo passo fu la nomina del Bramante a sovrintendente generale delle fabbriche papali, cui vennero affidate diverse opere di trasformazione urbanistica della città.
Su richiesta di Giulio II l'architetto marchigiano, tra i maggiori esponenti del Rinascimento, fece abbattere l'antica basilica paleocristiana, per fare spazio alla nuova costruzione. Si giunse così alla posa della prima pietra, il 18 aprile 1506. Il disegno iniziale del Bramante prevedeva una pianta "a croce greca" con una grande volta centrale e quattro piccole cupole, poi riveduto dallo stesso artista in favore del sistema "a croce latina".
La prematura morte degli architetti che si avvicendarono negli anni successivi (Raffaello e Antonio da Sangallo il Giovane), unita a vicende storiche drammatiche (come il Sacco di Roma del 1527) rallentarono moltissimo i lavori, che ebbero una svolta decisiva con l'assegnazione dell'incarico a Michelangelo Buonarroti, a quarant'anni di distanza dalla posa della prima pietra. Fu quest'ultimo a plasmare per sempre il profilo architettonico dell'edificio, disegnando l'imponente cupola, portata a termine dal suo discepolo Giacomo della Porta (tra il 1588 e il 1593).
Il completamento dell'opera si ebbe soltanto all'inizio del XVII secolo per mano di Carlo Maderno, che adottò definitivamente l'impianto a croce latina, prolungando la navata centrale fino all'attuale piazza San Pietro.
Consacrata il 18 novembre del 1626, la basilica conobbe un ultimo e determinante intervento grazie all'impareggiabile genio di Lorenzo Bernini, che concepì lo spettacolare colonnato attorno alla piazza, lasciando la sua firma anche all'interno nel maestoso Baldacchino di San Pietro che sovrasta l'Altare Maggiore.
Custode delle più sublimi espressioni del Rinascimento italiano, su tutte la Pietà di Michelangelo, la Basilica di San Pietro in Vaticano è visitata in media da sette milioni di turisti all'anno, in assoluto secondo luogo della cristianità più visitato al mondo (il primo è Nostra Signora di Guadalupe a Città del Messico).
19/6/2018
Villa Borghese: breve storia del parco più amato dai romani, che compie 115 anni!
Il 12 luglio del 1903 Villa Borghese apriva i suoi cancelli al pubblico. Entriamo insieme! Seguitemi!
“Villa di delizie”, è il risultato finale che aveva in mente il cardinale Scipione Caffarelli Borghese, nipote di papa Paolo V, quando all'inizio del Seicento comprò una serie di terreni e vigne attorno alla proprietà di famiglia.
Del progetto furono incaricati i due architetti Flaminio Ponzio e Giovanni Vasanzio , che diedero inizio ai lavori nel 1606. Ventisette anni dopo, durante i quali erano intervenuti artisti del calibro di Pietro e Gian Lorenzo Bernini, Villa Borghese era ormai completata in larga parte: 80 ettari di parco, intervallati da 35 fontane, 15 edifici minori, 14 fabbricati artistici, 10 monumenti e una ricca collezione di statue e sculture.
Modificata nel 1766 per volere del principe Marcantonio IV (che fece realizzare il Giardino del Lago), l'area venne acquisita al patrimonio del Comune di Roma nel 1903, al prezzo di tre milioni di lire di allora. Dedicata alla memoria di Umberto I, venne aperta al pubblico il 12 luglio dello stesso anno.
Oltre ad essere il terzo più grande parco pubblico della Capitale - dopo Villa Doria Pamphili e Villa Ada - Villa Borghese è un luogo di grande fascino artistico che richiama milioni di turisti all'anno, grazie soprattutto alla ricca collezione conservata nell'ex Casino Nobile, ribattezzato Galleria Borghese, senza pari al mondo per la quantità e l'importanza delle opere del Bernini e del Caravaggio che custodisce.
Un grande cuore verde: così si presenta, sulla cartina, il parco più famoso e, sicuramente, il più vivo e amato di Roma.
Oggi la villa, dai molteplici volti, riesce ad offrire attrazioni e divertimenti di vario tipo.
È apprezzata da chi ama passeggiare e correre all’aria aperta, dalle famiglie che si raccolgono sui prati attorno a colorati picnic, dagli estimatori d’arte che godono della presenza di numerosi musei. Fiore all’occhiello della villa, come già ricordato, il Museo e Galleria Borghese, con le meravigliose sculture, oltre al Museo Carlo Bilotti (Aranciera di Villa Borghese) che annovera nella sua collezione opere di De Chirico, Severini, Warhol, Rivers e Manzù, e la casa-studio dello scultore Pietro Canonica. Questi due Musei Civici fanno parte degli 8 “piccoli” che offrono a cittadini e turisti l’ingresso gratuito tutto l’anno.
All’interno del parco un vasto giardino zoologico, il Bioparco, ospita animali di ogni genere attirando ogni anno migliaia di visitatori, e il Silvano Toti Globe Theatre, unico teatro elisabettiano d’Italia, nato nel 2003 grazie all’impegno dell’Amministrazione Capitolina e della Fondazione Silvano Toti per una geniale intuizione di Gigi Proietti. Ogni estate il teatro ospita una ricca programmazione di opere shakespeariane.
Ma la grande oasi verde non ha ancora esaurito le sue attrazioni. I bambini si possono divertire nella ludoteca a loro dedicata Casina Raffaello, o fare un giro sul trenino, mentre gli amanti del cinema hanno uno spazio creato appositamente per loro, la Casa del Cinema. Inoltre, se il clima lo consente, si può noleggiare una barca al Laghetto. E per finire, tra i numerosi eventi che ospita ogni anno è da non perdere, a maggio, il concorso ippico di Piazza di Siena, con l’atteso rituale del Carosello dell’Arma dei Carabinieri.
11/7/2018
Piazza Venezia: la Storia in una Piazza.
Piazza Venezia: uno spazio di poche centinaia di metri quadrati testimone di innumerevoli eventi storici, come il passaggio dal fascismo alla democrazia e la firma dei Trattati di Roma del 1957, solo per citarne alcuni. Una grande scenografia che si estende intorno al colle del Campidoglio, percorsa ogni giorno da un numero imprecisato di romani e dai sempre più numerosi turisti in visita nella Città Eterna. Attraversiamola insieme!
Ai piedi del Campidoglio si distende in maniera imponente ed elegante Piazza Venezia, il luogo in cui si intersecano alcune delle strade più importanti del centro di Roma: via dei Fori Imperiali, via del Corso e via del Plebiscito cominciano proprio da qui. Ma la piazza ha moltissimi altri motivi per essere visitata e ammirata. Piazza Venezia è infatti il centro topografico di Roma, l'anello di congiunzione tra le varie epoche storiche della città, tra la Roma delle origini e quella dei Papi e allo stesso tempo è la prima piazza di Roma Capitale; la prima piazza dove viene sperimentata l'illuminazione a gas e la prima ad essere servita dall'omnibus a cavalli.
Anche la storia d’Italia più recente passa attraverso questi marmi e questi mattoni, visto che proprio qui, più precisamente dal balcone di Palazzo Venezia, Benito Mussolini ha pronunciato i propri discorsi. In merito sono indimenticabili le immagini di repertorio che ci tramandano una piazza gremita che ascolta l’annuncio della nascita dell’Impero nel 1936, e la dichiarazione di guerra del giugno 1940.
La piazza dunque è situata alle spalle del Campidoglio, nel punto dove si incontrano, come già detto, via del Corso e via dei Fori Imperiali. Ai suoi lati stanno Palazzo Venezia, Palazzo Bonaparte, il Palazzo delle Generali, ma soprattutto la mole grandiosa del Monumento a Vittorio Emanuele II, conosciuto anche con il nome di Vittoriano; il monumento che glorifica la raggiunta Unità nazionale e che fa da altare alle cerimonie dello Stato.
La sua costruzione inizia nel 1885 - il 22 marzo 1885 il Re Umberto I pone la prima pietra - su progetto di Giuseppe Sacconi, e termina nel 1911 ad opera degli architetti Koch, Manfredi e Piacentini. Rimodellato nel 1921 per accogliere la tomba del Milite Ignoto - ossia le spoglie di un soldato italiano sconosciuto caduto nella Prima Guerra Mondiale - è chiamato Altare della Patria. Una scalinata conduce al primo ripiano, al centro del quale, in un'edicola, si trova la statua della Dea Roma fiancheggiata da due bassorilievi, il Trionfo dell'Amor Patrio e il Trionfo del Lavoro. Due scalee laterali salgono alla statua equestre di Vittorio Emanuele II, in bronzo, che sorge sopra una base dove sono rappresentate le principali città d'Italia. La statua, opera di Enrico Chiaradia e Emilio Gallori, è alta e lunga 12 metri, con la figura del sovrano 16 volte più grande del naturale e con un peso complessivo di 50 tonnellate circa. Più in alto si leva un portico di 16 colonne, sormontato da 16 statue delle Regioni d'Italia e lateralmente da due quadrighe bronzee, dell'Unità a sinistra e della Libertà a destra.
La realizzazione del monumento tuttavia non ha mancato di suscitare forti polemiche, legate soprattutto al fatto che, nel costruirlo, non si è tenuto abbastanza conto dell'ambiente in cui il monumento stesso sorge, ossia vicinissimo al Campidoglio e al Foro Romano non lontano dal Colosseo, in pratica nel cuore di Roma. Secondo la critica, infatti, il contesto avrebbe dovuto suggerire scelte architettoniche diverse, più a "misura d’uomo".
Una “misura” che oggi, ahinoi, la città di Roma ha quasi irrimediabilmente perduto.
13/6/2018
Rembrandt: il pittore del "secolo d'oro" olandese.
Universalmente riconosciuto quale massimo pittore d'Olanda e tra i più insigni della storia dell'arte europea, Rembrandt (1606-1669) è stato uno dei protagonisti assoluti dell'arte del Seicento: il cosiddetto "secolo d'oro olandese".
Rembrandt Harmenzoon van Rijn nasce a Leida, nel sud dell’Olanda, il 15 luglio del 1606, da una famiglia benestante che può offrirgli un'infanzia agiata ed una approfondita educazione.
La sua formazione artistica comincia come apprendista presso Jacob Isaaczoon van Swaneburgh, un modesto pittore di Leida, e prosegue ad Amsterdam con Pieter Lastmann, uno dei più noti pittori di soggetto storico del tempo, grande ammiratore del Carracci e del Caravaggio.
Nelle primissime opere - dal 1625 gli oli e dal 1626 le acqueforti - Rembrandt appare ancora legato al classicismo italianizzante dei suoi maestri.
Solo intorno al 1627-1628 Rembrandt si ritiene pronto per una sua personale pittura e apre uno studio a Leida con Jan Lievens, lavorandovi fino al 1631.
Il carattere della sua opera è fondamentalmente il luminismo. Rembrandt ha imparato la lezione del Caravaggio: la luce è protagonista indiscussa e determina la dinamica della costruzione del quadro, penetra nei ritratti rivelandone l'interiorità.
Dopo la fama conseguita con il primo grande quadro, "La lezione di anatomia del professor Tulp", Rembrandt nel 1634 comincia ad essere ricercatissimo per ritratti e opere religiose, secondo parametri essenzialmente barocchi.
Nel periodo 1636-42 Rembrandt raggiunge l'apice della fama, ma il suo stile si sta già modificando tendendo alla sobrietà della composizione, alla pennellata larga e pastosa, al colore caldo e tonale, inserendo un nuovo soggetto, ritratto spesso dal vero: il paesaggio.
Il risultato sono opere famosissime come la "Morte della Vergine" del 1639, "Paesaggio con ponte levatoio" del 1640, "Veduta di Amsterdam" del 1641, "Addio di Davide a Gionata" e "Ronda di notte" del 1642.
La morte della moglie molto amata, spesso sua modella e madre del figlio Tito, avvenuta nel giugno del 1642, getta il pittore in una vita di intenso e disperato lavoro.
Infatti il periodo che va dal 1642 al 1655 è il più ricco e fecondo dell'attività di Rembrandt per gli effetti intensamente drammatici delle sue opere: dagli autoritratti del Kunsthistorisches Museum di Vienna ai quadri religiosi, "Adorazione dei pastori", la "Cena in Emmaus"; dai nudi sensuali "Susanna e i vecchioni" alle nature morte, "Bue squartato"; dai paesaggi "Paesaggio fantastico", "Il ponte di pietra", alle vedute olandesi, "Paesaggio al tramonto"; dai raffinatissimi disegni a penna e a pennello alle drammatiche e tecnicamente purissime acqueforti a puntasecca, "I tre alberi" , "Le tre croci", "Faust nello studio".
Dopo la morte della moglie, non riuscendo ad occuparsi da solo del figlio neonato, Rembrandt assume una governante, che diventa la sua amante.
Nella società puritana del tempo la vita di Rembrandt diviene fonte di continuo scandalo e il lavoro nel tempo ne risente, tanto più che in seguito si incapriccia di una giovane modella, con la quale convive fino alla morte di lei, e dalla quale ha una figlia.
Dopo il 1655 Rembrandt dipinge ritratti, "Jacob Trip", "La sposa ebrea", numerosi autoritratti di un'assoluta interiorizzazione, ritratti di gruppo, "I sindaci dei drappieri", e soggetti religiosi, "Giacobbe benedice i figli di Giuseppe" il "Ritorno del figliol prodigo".
Mentre i gusti dei suoi conterranei in fatto di pittura stanno cambiando, la sua condizione economica peggiora tanto che tutti i suoi beni, compresa la sua casa, vengono venduti all'asta.
Rembrandt si spegne solo e povero ad Amsterdam il 4 ottobre del 1669, e con lui finisce il “secolo d'oro della pittura olandese”.
10/6/2018
Il tormentato mondo di Frida Kahlo
L’incredibile, affascinante e a tratti scandalosa vita di Frida Kahlo (1907-1954), popolare pittrice sudamericana: una grande protagonista della scena artistica internazionale nella prima metà del Novecento. Apprezzata da Breton e dai surrealisti, da cui prese comunque le distanze, alternò aspetti folclorici della sua terra a motivi fantastici e bizzarri. Nel 2001 le fu dedicato un francobollo negli USA, prima donna latinoamericana a ricevere un simile riconoscimento.
Frida Kahlo nacque il 6 luglio del 1907 a Coyoacán, all’epoca un sobborgo di Città del Messico. La madre aveva origini meticce, il padre, fotografo, era nato a Baden-Baden.
A sei anni Frida si ammalò di poliomelite. La gamba e il piede destro divennero molto esili, provocandole un’andatura claudicante che le fece guadagnare il soprannome di “Frida gamba di legno” al quale reagì diventando molto spericolata, dimostrando di saper compiere vere e proprie acrobazie su biciclette e pattini, arrampicandosi su alberi e scavalcando muretti.
Fu in quel periodo che, per nascondere il suo lieve difetto fisico, iniziò a indossare pantaloni e poi lunghe gonne messicane. Nel 1922, dopo avere frequentato il liceo, Frida, volendo diventare medico, fu ammessa al migliore istituto superiore del Messico, la Escuela Nacional Preparatoria. Fu l’unica ragazza che fece parte del gruppo studentesco dei Los Cachuchas, così chiamati per i loro berretti e che si interessavano di letteratura e sostenevano le idee socialiste-nazionaliste di José Vasconcelos, da poco nominato ministro della Pubblica Istruzione.
L’azione politica di Vasconcelos, oltre a incentivare l’alfabetizzazione, favoriva il nascente movimento di rinnovamento culturale, il cui scopo era la parificazione sociale della popolazione di origine india e la sua integrazione culturale, nonché la riconquista di una cultura nazionale messicana indipendente. Molti artisti, che fino ad allora avevano giudicato degradante la diffusa imitazione di modelli stranieri, iniziarono a esigere un’arte messicana indipendente, lontana dall’accademismo, evidenziando nel loro lavoro le origini messicane e una rivalutazione dell’arte popolare.
In questo contesto trovava spazio l’arte dei murales, una forma artistica usata dai poeti messicani che parteciparono alla rivoluzione di inizio Novecento e che furono elemento fondamentale per la presa di coscienza del popolo e le conseguenti lotte sociali.
In seguito a quegli eventi, che resero evidente l’efficacia di quel mezzo di comunicazione, i murales vennero usati come un vero e proprio strumento di propaganda che permetteva di esprimere concetti e sensazioni senza l’ausilio di parole, che erano di difficile comprensione soprattutto per coloro i quali non sapevano leggere.
Uno dei maggiori esponenti di questa forma pittorica fu proprio il citato Diego Rivera, incontrato da Frida nel 1922, mentre preparava il suo primo murale nell’Anfiteatro Simon Bolivar della Escuela Nacional Preparatoria e che successivamente conobbe e sposò.
Il 17 settembre 1925 l’autobus con il quale Frida stava tornando a casa da scuola, si scontrò con un tram. Diverse persone morirono sul colpo e Frida rimase gravemente ferita. Frattura della terza e quarta vertebra lombare, tre fratture al bacino, undici fratture al piede destro, lussazione al gomito sinistro, la spalla destra slogata permanentemente, ferita penetrante all’addome prodotta da un corrimano che entrò nell’anca sinistra per uscire attraverso il sesso, compromessa la possibilità della maternità.
L’incidente la costrinse in ospedale per tre mesi e successivamente, a causa delle fratture alle vertebre lombari, a indossare per nove mesi diversi busti di gesso. Fu in questo periodo che, dovendo rimanere sdraiata, per ingannare il tempo, iniziò a dipingere. Si fece costruire una specie di cavalletto e un baldacchino sul quale fissò uno specchio in modo da potersi vedere e utilizzare la sua immagine come modello.
Trascorrendo molto tempo da sola, iniziò a dipingere gli autoritratti, sostenendo essere quello il soggetto meglio conosciuto. L’essere sfuggita alla morte le impose una rinascita. Frida fu costretta a confrontarsi con la sua immagine allo specchio, con il dolore per le sue gravi condizioni di salute, con l’angoscia e la disperazione, e decise con coraggio di ricominciare daccapo, di dipingere le cose come le vedeva, animate da un sentimento positivo e da un’esigenza di bellezza che riversava sui soggetti dei suoi dipinti, quali la natura, gli animali, i colori, i fiori e anche i suoi autoritratti.
Verso la fine del 1927, poi, Frida riprese una vita “normale”, ritrovò i suoi compagni che, nel frattempo, frequentavano l’università, svolgevano attività politica e partecipavano a incontri con Julio Antonio Mella, comunista cubano in esilio in Messico, compagno della fotografa Tina Modotti. Tramite lei, nei primi mesi del 1928, Frida conobbe Diego Rivera, determinante per la sua vita e per la sua produzione artistica. Lei gli mostrò le sue tele, lui la spronò a continuare a dipingere, intuendo che si trattava di una vera artista.
L’irruzione di Rivera nella sua vita la aiutò ad avere più fiducia in se stessa e a nutrire una sorta di orgoglio di esistere, rappresentato anche nello splendore di alcuni disegni e dipinti. In quell’anno Frida si iscrisse anche al Partito Comunista, sostenendo la lotta di classe armata del popolo messicano.
Frida e Diego si sposarono il 21 agosto del 1929, lui aveva 42 anni lei 22. Frida entrò in contatto con artisti e intellettuali che sostenevano un’arte messicana indipendente e raffigurò nei suoi autoritratti abiti, orecchini e collane che testimoniavano gli influssi culturali precolombiani e coloniali.
La situazione politica in Messico tra il 1928 e il 1934, con il nuovo governo, fu caratterizzata dalla repressione nei confronti dei dissidenti politici. Il Partito Comunista Messicano venne dichiarato fuorilegge e numerosi comunisti incarcerati. Molti si trasferirono negli Stati Uniti e tra questi, nel novembre del 1930, anche Frida Kahlo e Diego Rivera. Rimasero in America quattro anni nei quali per tre volte Frida non riuscì a portare a termine le gravidanze. Il dolore per la perdita del bambino è rappresentato in un dipinto a olio (Ospedale Henry Ford o Il letto volante) in cui è condensata la sua situazione di solitudine e abbandono.
Ricominciare a lavorare non fu semplice. Nel 1935 il rapporto tra Frida e Diego era molto difficile. Diego, che aveva avuto diverse avventure con altre donne, aveva iniziato una relazione con la cognata Cristina Kahlo, che era stata una sua modella. Profondamente ferita, Frida lasciò la casa dove abitava e dopo alcuni mesi andò per un periodo, con due amiche, a New York.
Uno dei dipinti di quell’anno, Qualche colpo di pugnale, raffigura l’omicidio di una donna per gelosia, realizzato prendendo spunto da un fatto di cronaca nel quale l’assassino si era difeso davanti al giudice dicendo: «Ma era solo qualche colpo di pugnale!».
L’opera colpisce per la rappresentazione oltremodo sanguinosa della brutale violenza maschile e le ferite inflitte sono, probabilmente, riconducibili alla sofferenza interiore di Frida.
Alla fine dell’anno, la relazione tra Diego e Cristina Kahlo si concluse, Frida tornò a casa, anche se il marito non rinunciò ad altre avventure extraconiugali, ma da questo momento anche lei cominciò ad avere rapporti con altri uomini tra cui, uno dei più famosi, fu quello con Lev Trotzkij nel 1937. Nei suoi ultimi anni di vita, poi, ebbe alcune relazioni anche con donne.
Nell’ottobre del 1938 ritornò negli Stati Uniti per allestire la sua prima mostra presso la Galleria di Julien Levy a New York. Fu un successo con vasta eco su giornali e riviste e metà dei quadri furono venduti. Nel 1939 è poi la volta di Parigi, dove André Breton volle organizzare una mostra dedicata all’arte messicana per la quale la pittrice e la sua opera ottennero commenti positivi sulla stampa. La minaccia dello scoppio della guerra fece però fallire, dal punto di vista finanziario, l’esposizione.
Nella capitale francese Frida conobbe e frequento Kandinskij, Duchamp, Picasso e molti altri artisti.
Il 1939 fu anche l’anno del divorzio, voluto da Diego Rivera. Per Frida la separazione fu dolorosa, per disperazione si diede all’alcol e per combattere la solitudine lavorò molto intensamente.
In quel periodo ripresero anche i dolori alla colonna vertebrale e si presentò una micosi alla mano destra. Nel settembre del 1940, Frida si recò a San Francisco, per farsi curare dall’amico medico, il dottor Leo Eloesser. Anche Rivera si trovava a San Francisco, avendo ricevuto l’incarico di dipingere un affresco murale per la Golden Gate International Exposition e in tale occasione le propose di risposarlo. Lei fu d’accordo, ma ad alcune condizioni: non avrebbe più accettato denaro da lui e non avrebbero avuto più rapporti sessuali.
L’8 dicembre del 1940, giorno del compleanno di Rivera, venne dunque celebrato a San Francisco il secondo matrimonio.
Nel 1941, poi, Frida e Diego tornarono in Messico. Il loro rapporto era cambiato, lei era diventata indipendente dal punto di vista economico e sessuale, e una famosa pittrice. Per circa un decennio la sua vita fu tranquilla e ricca di successo artistico e accademico. Fu chiamata a insegnare in una prestigiosa accademia d’arte per la pittura e la scultura, a scrivere per alcune riviste, ricevette molti premi, partecipò a varie mostre collettive. Ma tornarono i problemi di salute.
Nel 1944, infatti, per i continui dolori alla schiena e al piede destro, dovette stare a riposo assoluto e indossare un busto d’acciaio. Nell’autoritratto intitolato La colonna rotta, la sua spina dorsale è rappresentata come una colonna ionica rotta in diversi punti, il busto lacerato, il volto rigato dalle lacrime, decine di chiodi conficcati sul viso e sul corpo, il paesaggio sullo sfondo desolato. Nonostante tutto ciò, si tratta di un’opera che trasmette forza e fa percepire uno “spirito guerriero”.
Anche nel 1946, dopo avere subìto da uno specialista a New York un’operazione per rinforzare la colonna vertebrale, dipinse l’autoritratto Albero della speranza sii solido per l’ingegner Morillo Safa, suo mecenate. In questo quadro, nonostante il corpo sia raffigurato scoperto, indebolito e ferito, si ritrovano sentimenti di speranza e coraggio, confermati nella figura di Frida che regge in mano uno stendardo con il motto Albero della speranza sii solido, così come il titolo dell’opera.
Ma le aspettative sull’esito dell’operazione furono deluse. Al ritorno in Messico, infatti, i dolori ricominciarono e arrivò una profonda depressione. Nel 1950 Frida venne ricoverata per nove mesi in ospedale e operata altre sette volte alla colonna vertebrale. Per dipingere fece montare sul letto un cavalletto speciale che le permetteva di lavorare pur rimanendo sdraiata. Realizzò così l’Autoritratto con il ritratto del dott. Farill.
«Il dott. Farill - scrive - mi ha salvata, mi ha ridato la gioia di vivere. Sono ancora seduta su una sedia a rotelle e non so se potrò presto riprendere a camminare. Devo portare un busto di gesso, una pena terribile, ma mi aiuta a reggere meglio la spina dorsale. Non ho dolori, ma sono sempre stanchissima […] e, ma questo è naturale, spesso sono disperata, in un modo indescrivibile. E tuttavia ho ancora voglia di vivere. Ho già cominciato a dipingere, con tutto il mio affetto, il piccolo quadro che voglio regalare al dottor Farill».
Frida faceva fatica a camminare, spesso si muoveva in carrozzina e stava molto tempo in casa. Fatta eccezione per Rivera, frequentava solo donne. Dipingeva a letto e, quando poteva, nello studio o in giardino. Negli ultimi anni dipinse soprattutto nature morte.
Dal 1951, a causa dei dolori, ricorreva all’uso di farmaci antidolorifici che resero i suoi lavori meno precisi e accurati in un periodo in cui sentiva più forte il desiderio di esprimere nei suoi dipinti la sua ideologia politica, visto che dal ’48 si era nuovamente iscritta al Partito Comunista.
«Sono molto preoccupata - annota - per quanto riguarda la mia pittura, soprattutto perché vorrei farla diventare qualcosa di utile. Finora, infatti, sono riuscita solo a esprimere me stessa, ma ciò purtroppo non serve al partito. Devo cercare con tutte le mie forze di fare in modo che quel poco di positivo che le mie condizioni fisiche mi permettono ancora di fare serva anche alla rivoluzione, l’unico vero motivo di vivere».
Nel dipinto Il marxismo guarirà gli infermi, Frida immagina Marx come il salvatore che libererà il mondo dal dolore e dalla sofferenza, i malati miracolosamente guariti. Un’utopia realizzabile attraverso la fede politica, propagandata con la sua opera artistica.
Nella primavera del 1953 fu allestita la prima mostra personale in Messico e fu un enorme successo. La sera dell’inaugurazione Frida stava molto male, ma non voleva mancare al vernissage.
Si fece quindi trasportare in ambulanza e portare il letto in galleria, partecipò alla festa bevendo e cantando insieme al pubblico.
La malattia adombrò questo momento felice, i dolori alla gamba destra non erano più sostenibili. Nel suo Diario vi è un disegno premonitore, come per esorcizzare la sua più grande paura, che raffigura cioè due piedi staccati dal corpo, su un piedistallo, statuari, mentre da un’unica gamba emergono rami spinosi, senza foglie.
Nell’agosto di quell’anno i medici decisero di amputarle la gamba fino al ginocchio.
Frida Kahlo si spense la notte del 13 luglio 1954, a 47 anni, a causa di un’embolia polmonare. La sera prima aveva dato a Diego Rivera il regalo per le nozze d’argento che avrebbero festeggiato il 21 agosto successivo.
30/5/2018
Artemisia Gentileschi: una straordinaria donna - romana -. Un nuovo libro la racconta.
Ad Artemisia Gentileschi, la più nota pittrice del Rinascimento italiano, romana, ma napoletana di adozione, è dedicata una recentissima monografia di Alessandro Grassi, che si inserisce nella collana d’arte del gruppo Menarini in collaborazione con Pacini editore. Un prezioso omaggio dunque alla storia della vita di questa donna straordinaria e coraggiosa: un’esistenza, la sua, dai tratti ancora sorprendentemente attuali per le traversie e le violenze subìte ma denunciate con forza.
Nata a Roma l’8 luglio del 1593, figlia di Prudenza Montone e del pittore pisano Orazio Gentileschi, Artemisia fin da bambina si trovò a giocare con i colori del padre e a posare per lui come modella per i suoi dipinti. Fu nello studio romano di Orazio, infatti, che la giovane Artemisia iniziò i suoi studi di arte pittorica che l’avrebbero portata, ben presto, a intraprendere con grande abilità una carriera distinta e autonoma che seppur ostacolata, soprattutto all’inizio, da una certa discriminazione culturale di natura sessuale, la renderà ugualmente una delle più famose pittrici della Storia.
Nel 1609 Artemisia ritrasse l’amica Tuzia con il figlio per una Madonna col Bambino. La precoce data del 1610 posta nella Susanna e i vecchioni di Pommersfelden (prima opera firmata dall’artista e capolavoro di altissimo livello) indica come da subito la sua personalità creativa si distinse da quella del suo maestro.
Il 6 maggio del 1611 accadde quel terribile fatto che segnò drammaticamente la sua vita personale e artistica, contribuendo inoltre a far sì che la storiografia contemporanea e la critica successiva si interessassero più alla sua vita e meno alla sua opera, in una connotazione spesso di stampo femminista.
Artemisia venne stuprata da Agostino Tassi, pittore di prospettiva che collaborava strettamente con il padre Orazio. Per molto tempo la violenza, avvenuta anche con la complicità dell’amica Tuzia, fu taciuta. Dopo quasi un anno, nel marzo del 1612, si aprì un processo - del quale esistono i documenti che ci tramandano tutti gli atti e le testimonianze - che si concluse con una lieve condanna del Tassi e con l’umiliazione di Artemisia attraverso plurime visite ginecologiche e torture fisiche. Alla fine di tutto ciò, nel novembre dello stesso 1612, Artemisia si trasferì a Firenze costretta dal padre a sposare il fiorentino Pierantonio di Vincenzo Stiattesi. Le opere che dipinse dopo i fatti tragici di questo periodo dimostrano, come tante volte la critica ha sottolineato, particolare drammaticità formale e asprezza realistica, elementi di discendenza caravaggesca che daranno una decisa svolta allo stile ancora classicista delle prime opere.
Nel 1612 Artemisia eseguì la famosa Giuditta che decapita Oloferne del Museo Capodimonte di Napoli (di cui eseguirà un’altra versione oggi conservata agli Uffizi), che darà il via alla serie di coraggiose eroine bibliche o mitologiche che saranno spesso protagoniste dei suoi dipinti.
A Firenze Artemisia rimase fino al 1620, lavorando sotto la protezione del granduca di Toscana Cosimo II e di Michelangelo Buonarroti il Giovane, il quale, nel 1615, le commissionò l’Allegoria dell’Inclinazione (1615). Nel 1616 Artemisia venne accolta come membro della prestigiosa Accademia del Disegno di Firenze, in quella città dove avrebbe continuato a dipingere molte opere destinate a lasciare un certo influsso sulla pittura locale: Giuditta e la fantesca (1614), Santa Caterina (1614-1615), Minerva (1615), Maddalena penitente (1617) e Giaele e Sisara (1620).
Nel 1621 Artemisia sarà di nuovo a Roma, insieme alle figlie e al marito che ben presto, nel 1623, andrà via per sempre. In questo periodo sono documentati due soggiorni importanti dell’artista, uno a Genova dove conobbe Van Dyck e dove eseguì una Lucrezia (1621) e una Cleopatra (1621), e un altro a Venezia.
Tornata a Roma dipingerà il Ritratto di gonfaloniere (1622) e il famoso Ester al cospetto di Assuero (1622-1623), stringendo numerosi contatti con artisti caravaggisti italiani e stranieri.
Nel 1630, dopo aver terminato il famoso Autoritratto come allegoria della pittura dipinto su commissione di Cassiano dal Pozzo, si trasferì a Napoli dove realizzò molti dipinti, compresa una delle sue pochissime opere a destinazione pubblica: L’Annunciazione (1630) e un ciclo di tele per la cattedrale di Pozzuoli.
Nel 1637 Artemisia ricevette l’invito dal re Carlo I a recarsi in Inghilterra per collaborare con il padre Orazio, che si trovava già lì dal 1628. Così la pittrice andò in aiuto del padre ultrasettantenne per terminare il ciclo di nove tele per il soffitto della Queen’s House di Inigo Jones a Greenwich.
Il programma iconografico del lavoro della pittrice sarà l’Allegoria della pace e delle arti sotto la corona inglese (1638-1639). Morto Orazio nel 1641, Artemisia decise di ritornare a Napoli, dove, fino alla fine dei suoi giorni, lavorò incessantemente a nuove e importanti commissioni, come quelle per il collezionista messinese don Antonio Ruffo.
Si spense a Napoli il 14 giugno del 1653.
Solo un cenno, infine, alla mostra che tutti ricordiamo, intitolata “Artemisia Gentileschi e il suo tempo” - erano circa 100 in totale le opere esposte provenienti da tutto il mondo - che due anni fa è stata allestita nei saloni del Museo di Roma, presso Palazzo Braschi - con il patrocinio del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, promossa e prodotta da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale - Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e Arthemisia Group e organizzata con Zètema Progetto Cultura - con il proposito di rievocare non solo il percorso artistico della grande pittrice romana ma anche la sua avventura umana, appunto.
Per illustrare la ricchezza e il fervore creativo nei primi decenni del XVII secolo a Roma, accanto alle sue opere sono state affiancate quelle dei più importanti maestri del suo tempo, da Guido Cagnacci a Simon Vouet a Giovanni Baglione.
28/5/2018
Jannis Kounellis: il Maestro dell’arte povera.
Nato al Pireo, in Grecia, il 23 marzo del 1936, Jannis Kounellis è stato pittore e scultore, esponente di primo piano di quella che il critico Germano Celant ha definito "arte povera".
Ventenne, lascia la Grecia e si trasferisce a Roma per studiare presso l'Accademia di Belle Arti sotto la guida di Toti Scialoja, al quale deve l’influenza dell’espressionismo astratto che insieme all’arte informale costituisce il binomio fondamentale dal quale prende le mosse il suo percorso creativo.
Esordisce nel 1960 allestendo a Roma la sua prima mostra personale alla galleria "La Tartaruga".
Rispetto ai suoi maestri, Kounellis mostra subito un’urgenza comunicativa molto forte che lo porta al rifiuto di prospettive individualistiche, estetizzanti e decadenti e all’esaltazione del valore pubblico, collettivo del linguaggio artistico. Nelle sue prime opere, infatti, dipinge dei segni tipografici su sfondo chiaro che alludono all’invenzione di un nuovo ordine per un linguaggio frantumato, polverizzato.
Risalgono al 1967 le prime mostre ideologicamente vicine al movimento dell’arte povera nelle quali l’uso di prodotti e materiali di uso comune suggeriscono per l’arte una funzione radicalmente creativa, mitica, priva di concessioni alla mera rappresentazione. Evidenti sono anche i riferimenti alla grecità delle sue origini. Le sue installazioni diventano delle vere e proprie scenografie che occupano fisicamente la galleria e circondano lo spettatore rendendolo attore protagonista in uno spazio che inizia anche a riempirsi di animali vivi, contrapposti alle geometrie costruite con materiali che evocano la produzione industriale. Nella "Margherita di fuoco" appare appunto anche il fuoco, elemento mitico e simbolico per eccellenza, generato però da una bombola a cannello.
Nel 1969 l’installazione diviene vera e propria performance con i Cavalli legati alle pareti della galleria L'Attico di Fabio Sargentini, in un sontuoso scontro ideale tra natura e cultura nel quale il ruolo dell’artista è ridotto al livello minimo di un’operosità sostanzialmente manuale, quasi da uomo di fatica.
Con il passaggio agli anni ’70 l’entusiasmo volitivo di Kounellis si carica di una pesantezza diversa, frutto del disincanto e della frustrazione di fronte al fallimento delle potenzialità innovative dell’arte povera, inghiottita suo malgrado dalle dinamiche commerciali della società dei consumi, presidiate dagli spazi tradizionali di fruizione come musei e gallerie. Tale sentimento viene espresso dalla famosa porta chiusa con delle pietre presentata per la prima volta a San Benedetto del Tronto e quindi nel corso degli anni, con significative variazioni strutturali dense di significati poetici, a Roma, Mönchengladbach, Baden-Baden, Londra, Colonia.
Nel 1972 Kounellis partecipa per la prima volta alla Biennale di Venezia.
Gli anni dell’amarezza proseguono con installazioni nelle quali alla vitalità del fuoco subentra l’oscura presenza della fuliggine mentre gli animali vivi cedono il passo a quelli imbalsamati. Il culmine di questo processo è forse il grandioso lavoro presentato all’Espai Poublenou di Barcellona nel 1989, caratterizzato da quarti di bue appena macellati fissati mediante ganci a lastre metalliche e illuminati da lanterne a olio.
Negli anni più recenti l’arte di Kounellis si è fatta virtuosamente manieristica e ha ripreso temi e suggestioni che l’avevano caratterizzata in precedenza con uno spirito più meditativo, capace di interpretare con una rinnovata consapevolezza la primitiva propensione all’enfasi monumentale. Esempi di questa nuova direzione di ricerca sono l’installazione del 1995 in piazza Plebiscito, a Napoli, e quindi le mostre in Messico (1999), Argentina (2000) e Uruguay (2001).
Nel 2002, l’artista ripropone l’installazione dei cavalli alla Whitechapel di Londra e, poco dopo, alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma costruisce un enorme labirinto di lamiera lungo il quale pone, quasi fossero altrettanti approdi, gli elementi tradizionali della sua arte, come le "carboniere", le "cotoniere", i sacchi di iuta e i cumuli di pietre ("Atto unico").
Nel 2007 lavora alla realizzazione del 383° festino di Santa Rosalia a Palermo disegnando il carro trionfale della Santa. Nel 2009 la Galleria Fumagalli e il Museo Adriano Bernareggi (Bergamo) dedicano rispettivamente all’artista una personale e un’unica installazione realizzata site specific. L'artista realizza uno speciale allestimento di opere proponendo una riflessione sull’arte e sull’uomo, testimonianza delle riflessioni poetiche da sempre al centro del suo lavoro e per le quali è stato indicato come possibile ospite alla Biennale di Venezia 2011 del primo padiglione della Città del Vaticano.
Jannis Kounellis si è spento a Roma, dopo un breve ricovero a Villa Mafalda, il 16 febbraio del 2017, all’età di 80 anni.
28/5/2018
Antonio Ligabue: genio e tormento nell'arte.
Riscuotendo un grande successo di pubblico e di critica, la mostra “Antonio Ligabue” (1899-1965), ospitata nelle sale del Complesso del Vittoriano - Ala Brasini di Roma dall'11 novembre 2016 fino al'8 gennaio 2017 - prorogata al 29 gennaio - che molti di voi spero abbiano avuto modo di visitare - ci ha permesso di ricostruire con completezza la sua vita, la sua arte e la sua difficile, ma soprattutto tormentata, personalità.
Attraverso circa 100 lavori - dipinti, disegni e sculture in bronzo, tra cui i famosi autoritratti - l’esposizione ha proposto inoltre un excursus storico e critico sull’attualità dell'opera di Ligabue, che rappresenta una delle figure più interessanti dell’arte del Novecento e che per questo abbiamo voluto ricordare proprio oggi, 27 maggio 2018, nel giorno dell'anniversario della sua scomparsa, avvenuta a Gualtieri il 27 maggio di 53 anni fa.
Segnaliamo infine che con il patrocinio di Roma Capitale e Fondazione Federico II Palermo, la mostra è stata promossa dalla Fondazione Museo Antonio Ligabue di Gualtieri e dal Comune di Gualtieri.
Antonio Ligabue, il cui vero cognome è Laccabue, nasce in Svizzera, a Zurigo, il 18 dicembre del 1899.
Figlio di un'emigrante italiana, fu dato in adozione ad una famiglia svizzera tedesca che lo affidò a sua volta ad un Istituto per ragazzi difficili da dove fu espulso a sedici anni.
Selvaggio, imprevedibile per il suo rapporto con il mondo e la realtà, per tutta la vita fu considerato un “matto” e venne espulso in manette dalla Svizzera ed istradato in Italia.
La sua pazzia era solo il suo essere istintivo ed autentico nella vita, come nel suo essere pittore.
Riconosciuto, come il più alto esponente dei Naif italiani, riempie la realtà della campagna lombarda di alberi e foglie di una fantastica giungla popolata di animali domestici e selvaggi.
Nella sua "diversità" Ligabue si distingueva dagli altri ragazzi per l'abilità nel disegno e per l'amore verso gli animali.
Ritornato forzosamente in Italia, per mantenersi si adattò a fare mille mestieri, lontani dalla pittura, ma ebbe occasione di dipingere cartelloni e fondali per circhi equestri.
Per i disturbi mentali di cui soffriva, Ligabue viveva completamente solo ed isolato e fu persino ricoverato in manicomio più di una volta.
Nel 1927, un fortunato incontro con lo scultore Marino Renato Mazzacurati diede una svolta finalmente positiva alla sua vita sfortunata.
Lo scultore, maestro della prima Scuola Romana, riconobbe in quello strano personaggio le doti del vero artista.
Mazzacurati insegnò a Ligabue l'uso dei colori ad olio, aiutandolo a padroneggiare il suo talento e facendolo entrare nel mondo artistico.
Dal 1932 Antonio Ligabue è in grado di vivere con i proventi della sua arte, la sua vita è completamente dedicata alla pittura, amici e conoscenti, nonostante la sua parlata mezzo tedesca e le sue stranezze, lo ospitano dando alla sua esistenza una parvenza di normalità.
Ma nel 1937 viene internato in un manicomio in "stato depressivo" ed ancora una volta lo scultore Mazzacurati si interessa a lui, facendolo dimettere.
Anche in manicomio Ligabue continua a dipingere sotto l'occhio attento e curioso dei medici che dicono di lui: "...dipinge in modo primitivo, comincia dall'alto con pentimenti e correzioni, sino al margine inferiore...".
Comunque Ligabue, anche quando fu raggiunto dalla notorietà, continuò ad essere un personaggio inquietante, diverso e strano.
Rintanato tra gli alberi, le nebbie e le calure della Bassa Padana, con le sue ossessioni maniacali, Ligabue continua a rappresentare il mondo intorno a sé in tinte fosche e misteriose.
Durante la Seconda guerra mondiale viene ingaggiato come interprete dai tedeschi, ma, durante un diverbio, aggredisce un soldato con una bottiglia e viene nuovamente internato in una casa di cura, dove rimane per tre anni.
Quando nel 1948 Ligabue viene dimesso, cominciano anni durante i quali la fortuna sembra volgere stabilmente a suo favore.
Critici e galleristi cominciano ad occuparsi di lui, e la sua attività pittorica vede un netto miglioramento.
Vince premi, vende quadri e può coltivare la sua passione per le moto, di cui, alla sua morte, ne avrà collezionate ben sedici accanto alle quali amava farsi fotografare.
Ligabue, da sempre incuriosito dal mondo della meccanica, dipinse molti quadri raffiguranti questi soggetti, arricchiti dalla propria passione e fantasia.
Il suo "Triciclo volante" rappresentava una creatura ermafrodita, un pò macchina e un pò insetto, che ripropone il primo mezzo di locomozione di ognuno di noi ed il sogno del volo.
Il coinvolgimento di Antonio Ligabue nella natura circostante lo spinge addirittura ad aspirare ad essere un uccello, un insetto, o uno dei suoi animali.
Di questi animali, che Ligabue dipingeva a memoria, nella vita quotidiana imitava i versi, le posizioni ed i gesti, prima di fissarli sulla tela.
Ligabue - Toni come lo chiamavano gli amici - quando raggiunse la sicurezza economica, dopo la vita randagia e selvaggia, amava vestirsi bene e si comperò una macchina con cui andava in giro per ore scarrozzato da un autista, senza riuscire però a convincere la donna di cui era innamorato a sposarlo.
Negli anni fra il 1930 ed il 1940 Ligabue, oltre che con la pittura, si esprime con la scultura.
La materia prima la trovava nella terra lungo il Po: argilla che depurava masticandola pazientemente e che rendeva malleabile impregnandola di saliva.
Dal blocco d'argilla toglieva materia sbozzando la figura che voleva rappresentare, poi rifiniva il modello a colpi di pollice, usando un attrezzo affilato ed appuntito per scolpire alcuni particolari.
Gli animali sono i soggetti delle sculture di Ligabue, ma, a differenza di quelli dipinti, sono più realistici, come presi dalla pittura dell'Ottocento, dimenticando le fantasiose deformazioni.
La maggior parte delle prime sculture di Ligabue, essendo fatte di materiale fragile, sono andate perdute, ma quando, dopo un decennio, negli anni '50, riprende a scolpire, Ligabue si premura di cuocerle in modo da garantirne più a lungo la durata.
Dopo la morte dell'artista gli animali in terracotta sono stati fusi in bronzo, usando tecniche diverse per gli stampi e ricavando opere d'arte per cui Ligabue risulta, oltre ad essere un grande pittore, anche un vitale e potente scultore.
Nel febbraio del 1961, la prima grande personale di Antonio Ligabue presentata a Roma segna il definitivo successo dell'artista, la cui attività creativa conquistò molti scrittori, giornalisti e grandi critici tra cui Anatole Jakovky, che lo aiutò ad essere conosciuto a livello internazionale.
L'anno dopo, mentre Ligabue è sofferente per essere stato colpito da paresi, il suo paese, Guastalla, gli dedica una grande mostra antologica. Nonostante la sua infermità, Antonio Ligabue ha continuato a dipingere fino alla morte, avvenuta a Gualtieri il 27 maggio del 1965.
27/5/2018