"Ritratto di uno statista"
È stato scritto di lui: “… morbido, leggermente curvo, sembra un uomo d’altri tempi… con la sua ciocca di capelli bianchi, con i suoi occhi vellutati, con il suo atteggiamento pieno di mistero… Freddo, amletico, problematico, quasi angosciato. Porta con sé inconsapevolmente l’abbandono nel fatto che è proprio degli uomini dell’Oriente”. Lo stesso autore aggiunge poi: “… è un tenace lavoratore che alla flessibilità apparente associa una rigidità di fondo assoluta. Ama il ritmo lento, creativo, del lavoro artigiano. Crede più nelle forze spontanee, nei movimenti sotterranei che nella costruzione di un modello concepito dalla mente di pochi superbi oligarchi. È per questo che non conosce la concitazione, l’attivismo convulso ed è allergico alla retorica. Ha la forza della coerenza, di una personale correttezza, di una vasta e profonda cultura, ‘il dono divino del dubbio’, ma non ha spiccate capacità operative. Apertissimo alle istanze civili, rispettoso di tutte le opinioni, mediatore abilissimo di forze in contrasto, possiede il segreto per incantare i suoi interlocutori con il suono melodioso dei suoi discorsi”.
La vita di Aldo Moro (1916-1978) dunque: un materiale prezioso, al di là dell’aneddotica, della quale proprio non c’è bisogno. Del resto lui non offriva spazio ai rotocalchi, non era uomo da episodi minori o di “colore”, sebbene avesse una sua sfera intima, più discreta, più sua. Ben poco offriva su questo terreno, se non il grande amore per la famiglia, le gite a Torrita Tiberina, la villeggiatura a Terracina dove possedeva un appartamento in condominio. E ancora: aveva la pressione bassa, si alzava tardi. Una volta gli proposero di convocare il Consiglio dei ministri per le 8 del mattino, rispose: “Per me le 8 non esistono”. Si sapeva che gli piaceva passeggiare per il Foro Italico, nel tardo pomeriggio. Quando i tempi erano più tranquilli, lo si poteva incontrare per via dei Fori Imperiali. Era fedele al suo incarico di docente universitario. Le sue lezioni erano sempre affollate. Con sé, la mattina dell’agguato fatale, portava la tesi di laurea di una studentessa romana.
Fatalista, pessimista, disposto assai poco a credere all’attivismo sia per temperamento sia perché “se le situazioni non sono mature nessuno le può spostare”. La sua lentezza diveniva una specie di filosofia, “le montagne non poteva spostarle nessuno”, occorreva far maturare i tempi. Certo, non era l’immagine dell’efficientismo. È stato scritto che con lui le pratiche, quando era ministro, si affastellavano in attesa di essere “evase”. Tuttavia, al di là di questa o quella configurazione, come si collochi Moro nella storia della democrazia italiana è tra i problemi più interessanti, a prescindere dalla stessa tragica fine.
Nato a Maglie, in provincia di Lecce, il 23 settembre 1916, le sue prime esperienze Moro le aveva compiute nelle organizzazioni giovanili cattoliche, nella F.U.C.I. Ne era stato il presidente. Ad esse si richiamava spesso. La F.U.C.I. fu una vera scuola per Moro: fu lì che conobbe Giulio Andreotti e Giovanni Battista Montini. Poi il dopoguerra.
La sua ascesa non era stata fulminea. Un po’ alla volta, riuscì a farsi luce nel groviglio della lotta politica e tra i capi del suo partito. All’inizio era tra i “professorini” dossettiani: il più timido. Con Dossetti, il cui fascino era grandissimo, ma poi sempre più con se stesso.
La sua giovinezza politica si svolse nell’orbita di personalità di grande rilievo: non solo Giuseppe Dossetti, ma Alcide De Gasperi. Con De Gasperi ci furono vari “distinguo”. Però Moro non giunse mai a quella maggiore differenziazione nei confronti dello statista trentino che invece si ritrova in altri dossettiani. Restò per anni in posizione di attesa.
La sua opera, come ministro, non apparve caratterizzata rispetto ad altri. Non lasciò impronte significative, né in positivo, né in negativo. Sembrava egli stesso la testimonianza della sua teoria, che bisognasse cioè “far maturare i tempi”, anche per gli sviluppi della propria vita. Non forzò mai le situazioni. Si ritrovò nella potente corrente di “Iniziativa democratica”, pur senza venire mai in primo piano, nemmeno allora. Fu così, quasi per caso, che ebbe la successione alla Segreteria, nella crisi della Domus Mariae. Nessuno allora avrebbe scommesso su Moro come un segretario politico destinato a durare. Si vedeva in lui un segretario di transizione. Era, si sarebbe detto in linguaggio sportivo, un “outsider”, non un vero leader. Forse proprio per questo lo aiutò Segni che già lo aveva avuto ministro, forse altri agirono in suo favore, ma non sembrava avere la statura per stare al timone della DC.
Che avesse del carattere e delle idee sue lo si vide poco dopo, sia pure un po’ alla volta. Instaurò il metodo della tolleranza, non isolò nessuno. Ma non era ancora la bussola della DC e, pur essendo alla Segreteria, non ne era nemmeno la figura di maggior rilievo. Antonio Segni e Amintore Fanfani contavano molto più di lui. Frattanto la DC sbandava, non trovava una linea sicura dopo la fine del “centrismo” e lo sbocco negativo o infruttuoso dei successivi tentativi. Si stava facendo più spavalda l’estrema destra con le sue ipoteche e le sue esplicite vanterie per i voti concessi in Parlamento, voti che condizionavano governi e situazioni. Un labirinto dal quale Moro trovò il modo di uscire, con le famose “convergenze parallele”. La soluzione trovata era un ponte di passaggio verso il centro-sinistra. E si giunse al centro-sinistra.
Sembrò che si fosse aperto un periodo nuovo per la storia del Paese. Molte speranze invece andarono deluse, e pur tuttavia c’era un distacco da molte cose del passato. Moro si trovò al centro di quel periodo storico. Non ne fu in realtà il solo protagonista, ma era lui a stare alla guida della DC. Era, già in quella fase, il vero leader del partito. Sue quindi anche le responsabilità per ciò che non funzionò. A ogni modo l’analisi deve tener conto del quadro d’insieme. Il punto a favore di Moro sta nell’attuazione del disegno politico: la formula e la sua traduzione in realtà, in termini di maggioranza e di governo. Si ebbe l’incontro tra socialisti e cattolici. Una grande forza come quella socialista, per tanti anni all’opposizione, entrava nel governo. C’era alle spalle tutto un moto storico, dall’Ottocento di Prampolini alla nuova realtà nella “stanza dei bottoni”. Ciò si verificò con Moro. Moro come Giolitti? Un grande interrogativo.
Ci sono analogie e differenze. Giolitti laico, Moro cattolico; Giolitti con il collegio uninominale, Moro con la proporzionale; Giolitti con i suoi capi elettori, Moro con un partito come la DC. Ma se con Giolitti cominciò quello che venne detto il “nuovo Regno”, non si deve dimenticare che lo statista di Dronero fu anche avversato ferocemente. L’appellativo di “ministro della malavita” gli venne addirittura da Gaetano Salvemini.
L’opera di Moro non era stata mai esente da critiche. Non gliene mancarono, anche di molto aspre, nello stesso periodo in cui era in auge, a capo del centro-sinistra. Del resto era anche vero che grandi problemi restavano non risolti. Però il “clima” per molti aspetti era cambiato. Poi venne la contestazione. Ma già prima Moro era caduto. Caduto e isolato. Ma, anche se isolato, Moro sapeva pensare e indagare intellettualmente sui grandi fenomeni. Forse è il suo maggior merito. Forse tale capacità di analizzare cose ed eventi lo portò persino a capire, in grandi linee, con quali forze avesse a che fare nei tragici giorni del sequestro, prima della morte.
Della gravità della situazione interna di quegli anni era ben consapevole. Bisognava reagire contro la violenza, contro la criminalità, per non creare “poteri fuorvianti” e per garantire la giustizia e la libertà. In un articolo sul “Giorno” prendeva in esame i problemi della legittima difesa arrivando a considerazioni di fondo. Occorreva restituire allo Stato tutta la sua autorità di organo di “prevenzione e di repressione del disordine”. Di fronte al delitto, “non bisognava consentire indulgenze”. Aggiungeva che “il potere non poteva arrendersi all’ingiustizia suprema rappresentata dalla violenza e dal crimine”. Intravedeva inammissibili degenerazioni che avrebbero potuto compromettere le nuove istituzioni. La disgregazione minacciava lo Stato e con le istituzioni la libertà e la democrazia. E stigmatizzava: “Non c’è un minuto da perdere”.
Infine l’agguato di via Mario Fani, il 16 marzo 1978, il giorno stesso della presentazione in Parlamento del nuovo governo, presieduto da Andreotti, con il voto di fiducia di cinque partiti: DC, PCI, PSI, PSDI, PRI. Un’ondata di giudizi su Moro durante i 55 giorni della prigionia e poi alla morte. La sua morte, il delitto Moro, il 9 maggio 1978. Quale la verità? Polemiche, dibattiti e angosciose interpretazioni forse non si placheranno mai.