25 luglio 1943: crollo di un regime. 

 

 

 

Il 25 luglio del 1943 era una domenica. I romani la ricordano come una giornata afosa, senza un filo di vento, di quelle da passare in casa in attesa del ponentino serale. L’Italia è in guerra da tre anni. Le cose vanno sempre peggio: sconfitte militari e bombardamenti sulle città. Qualcosa deve accadere, ma che cosa? E come? Ripercorriamo la cronaca di quelle ore cruciali

 

 

Quando il giorno prima, nel pomeriggio del 24, si è sparsa la voce della riunione del Gran Consiglio del fascismo, si è pensato a una riunione di “routine”. Nessuno si illude che ne possa uscire qualcosa di nuovo. Quindici giorni prima, nella notte fra il 10 e l’11 luglio, le truppe anglo-americane erano sbarcate in Sicilia. La linea del “bagnasciuga” non aveva tenuto. Il 19 luglio nella Villa Gaggìa di Feltre, Mussolini si era incontrato con Hitler, con l’intenzione di parlargli chiaro. Ma poi, a tu per tu con lui aveva fatto scena muta e lasciato che Hitler parlasse ininterrottamente per tre ore. Lo stesso giorno dell’incontro di Feltre, intanto, Roma subisce il primo bombardamento aereo. I quartieri Tiburtino e Prenestino sono sconvolti. Il re non si fa vivo. Mussolini, tornato da Feltre, ha altre gatte da pelare. Solo Papa Pio XII troverà una parola di conforto per la gente.

 

Questa è l’atmosfera di Roma all’alba del 25 luglio 1943. Quello che i romani non sanno ancora è che quella notte, mentre il cielo si tinge delle prime luci fra il Pincio e l’Aventino, il regime è finito. Dopo dieci ore di dibattito, il Gran Consiglio ha messo in minoranza Mussolini su un ordine del giorno Grandi che restituisce al re la suprema iniziativa delle decisioni. È stata una “notte dei lunghi coltelli”. Un’acre, spietata requisitoria contro il loro capo da parte di coloro che per vent’anni lo hanno servito come un idolo. Dirà più tardi Mussolini: “Sentii subito nell’aria un’ostilità dura. Parlai senza entusiasmo, a bassa voce. Mi dava un tremendo fastidio la luce delle lampade elettriche. Mi sembrava di assistere al processo contro di me. Mi sentivo imputato e nello stesso tempo spettatore. Ogni energia dentro di me si era spenta”.

 

Quando Mussolini ha finito di parlare, comincia il fuoco di fila delle contestazioni.

 

De Bono: “C’è soprattutto una responsabilità politica: la tua responsabilità nella scelta dei capi militari”.

Bottai: “È la tua relazione a darci la sensazione che una difesa tecnicamente efficace della penisola è impossibile”.

De Vecchi: “Non ci venga a raccontare frottole. Nessuno ha tradito. Se abbiamo preso batoste, è perché si andava allo sbaraglio contro un nemico cento volte più forte di noi”.

Ciano: “Voi, duce, non nascondeste mai nulla all’alleato. Ma l’alleato non ci ripagò con la stessa lealtà. Ogni accusa di tradimento che i tedeschi muovessero all’Italia potrebbe essere ritorta. Noi non saremmo in ogni caso dei traditori, ma dei traditi”.

Grandi: “Fra le molte frasi vacue o ridicole che hai fatto scrivere sui muri di tutta Italia, ce n’è una che hai pronunciato dal balcone di Palazzo Chigi nel 1924: - Periscano le fazioni, perisca anche la nostra, purché viva la nazione - . È giunto il momento di far perire la fazione”.

Alfieri: “Duce, come vi ho detto a Feltre, avete ancora una carta nelle mani. Dovete persuadere Hitler che l’Italia è giunta al limite massimo della fedeltà e del suo sacrificio”.

 

“Sta bene - conclude Mussolini - mi pare che basti. Possiamo andare. Avete provocato la crisi del regime. La seduta è tolta”.

 

Il duce è distrutto. Domanda a Carlo Scorza - ultimo segretario del Partito nazionale fascista - che valore può avere l’ordine del giorno approvato, se di parere o di deliberazione. Poi torna a casa, a Villa Torlonia, dove sua moglie ha vegliato in attesa. A Roma, intanto, nessuno sa nulla. Quello che è successo è noto solo a poche persone che si guardano bene dal divulgarlo. È una domenica come tutte le altre. Mussolini va a casa, beve una tazza di brodo e un caffè, spiega a Donna Rachele, che se ne preoccupa, che non ha fame, e aggiunge che alle 17 deve andare dal re a Villa Savoia. La moglie è già informata. Hanno telefonato anche lì, pregandola di avvertirlo, caso mai non avessero potuto parlargli, precisando che deve andare “in borghese”. “Guarda - dice a Mussolini - che ti vogliono in borghese per far prima quello che vogliono…”. “E cioè?..”. Ma non c’è bisogno di spiegazioni. Mussolini cerca di illudersi. “Dopotutto - dice - la guerra non sono stato solo io a dichiararla, anche il re è responsabile”. Ma è lui il primo a non credere alle sue parole.

 

Il colloquio di Villa Savoia durò in tutto una ventina di minuti. “Trovai un uomo - racconterà più tardi Mussolini - con il quale ogni ragionamento era impossibile perché aveva già preso le sue decisioni e lo scoppio della crisi era imminente”. Il re gli disse: “Così non si va avanti. L’Italia è in tocchi. L’esercito è moralmente a terra. I soldati non vogliono più battersi”. E aggiunse che l’uomo richiesto dalle circostanze era a suo giudizio Pietro Badoglio, che avrebbe costituito un ministero di tecnici per l’amministrazione dello Stato e per continuare la guerra. “Allora tutto è finito?” domandò Mussolini. Il re non rispose. Pochi minuti dopo l’ex capo del fascismo veniva arrestato.